di Thilo Zimmermann
Di recente, la Germania è rimasta paralizzata per diversi giorni dallo sciopero dei macchinisti della Deutsche Bahn, indetto da un sindacato relativamente piccolo, la GDL. Un evento insolito per un paese che conosce solo 16 giorni di sciopero ogni 1.000 dipendenti, rispetto ai 139 della Francia e ai 76 della Finlandia. Lo sciopero è terminato poco prima del lunedì di Pentecoste, con un’intesa tra le parti di negoziare un accordo nelle prossime tre settimane.
Da alcuni anni oramai i sindacati tedeschi hanno cominciato a dimostrare una maggiore grinta e fiducia in sé stessi. Secondo la Hans-Böckler Stiftung (un istituto di ricerca collegato ai sindacati tedeschi), nel 2014 le associazioni di categoria sono riuscite a negoziare un incremento salariale del 3,1% in media, il più alto da quindici anni a questa parte. E quest’anno puntano ad un incremento del 5,5%. Sembrerebbe che i sindacati tedeschi si siano finalmente risvegliati dal loro lungo sonno. All’inizio del millennio, al culmine del trionfo del neoliberismo in Germania, molti sindacati accettarono un programma di restrizioni salariali al fine di aumentare la competitività delle imprese e ridurre la disoccupazione nel paese. Come noto, la politica tedesca di compressione dei salari è oggi considerata da molti una delle cause principali della crisi dell’eurozona, anche se molti tedeschi non ne sono consapevoli.
Il recente sciopero dei macchinisti è dunque il segnale di un’inversione di tendenza? Stiamo assistendo allo sgretolamento del consenso neoliberale – o ordoliberale – in Germania, come hanno suggerito alcuni commentatori? O addirittura all’alba di un movimento paneuropeo per la giustizia sociale, come si augurerebbero senz’altro molti cittadini dell’Europa meridionale? Sarebbe bello, ma purtroppo i fatti raccontano un’altra storia.
Nel 2014 anche il presidente della Bundesbank ha auspicato un incremento salariale del 3% alla luce dell’andamento positivo dell’economia e del raggiungimento della piena occupazione in alcuni settori. Ma ha prontamente ricordato che i salari non dovrebbero crescere più della produttività, e che le politiche salariali non vanno viste come uno strumento per risolvere la crisi dell’euro. L’accordo raggiunto per un aumento del 3,1% è dunque la dimostrazione di quanto sia forte ancora la logica corporativista in Germania.
A dimostrazione di ciò, lo sciopero dei macchinisti non riguardava tanto gli aumenti salariali – un punto su cui sono concordano più o meno sia la Deutsche Bahn che i sindacati – quanto il diritto del piccolo sindacato della GDL di negoziare direttamente con l’azienda. La maggioranza dei dipendenti della Bahn, infatti, è rappresentata dal sindacato tedesco EVG, che fa parte della principale federazione sindacale tedesca, la DGB. Tradizionalmente, la GDL era aperta solo ai macchinisti, che rappresentano una sorta di “élite” all’interno dell’azienda. Sia l’attuale leader Claus Weselsky (dal 2008) che il suo predecessore Manfred Schell (1989-2008) sono membri della CDU, il partito conservatore tedesco della Merkel. Solo dal 2002 il sindacato si è aperto al personale generico. Da allora – in particolare da quanto è arrivato Weselsky – la GDL sta cercando di prendere il posto della EGV. Il diritto di negoziare direttamente gli accordi salariali con l’azienda sarebbe un importante passo avanti in questa battaglia.
Un’eventuale vittoria del sindacato andrebbe a vantaggio del resto dei lavoratori e dei sindacati tedeschi? È difficile a dirsi. Da un lato, la GDL sta violando alcuni princìpi sindacali ben consolidati, secondo cui i sindacati devono rimanere uniti e lo stesso mestiere va retribuito allo stesso modo. Dall’altro, però, sta anche dando una scossa ad un movimento sindacale un po’ infiacchito. Lo sciopero di questi giorni non ha solo messo sotto pressione l’azienda, ma anche il sindacato “concorrente”, la EVG, che ora ha annunciato anch’esso uno sciopero nel caso in cui le loro richieste non fossero accolte. Questo rappresenta indubbiamente un’inversione di tendenza rispetto agli anni d’oro del neoliberismo, quando la TRANSNET (predecessore della EVG) sostenne persino le politiche di privatizzazione dell’azienda, nonostante gli evidenti svantaggi per i dipendenti della Bahn. Inoltre, l’aggressiva strategia negoziale della GDL rappresenta una rottura con l’approccio “consensuale” della Merkel, che punta a disinnescare fin dal principio ogni potenziale elemento di conflitto. Se lo sciopero fosse continuato durante la festa del lunedì di Pentecoste, ne sarebbe uscita pesantemente danneggiata anche la Merkel.
In conclusione, è indubbio che vi sono degli importanti (e per certi versi positivi) cambiamenti in corso all’interno del movimento sindacale tedesco. Ma il vero terreno di scontro è un altro, e riguarda la volontà o meno dell’SPD, sotto la leadership di Sigmar Gabriel, di formare una coalizione con il partito della sinistra radicale Die Linke alle prossime elezioni, nel 2017. L’elezione di Bodo Ramelow a ministro-presidente della Turingia alla fine del 2014 è stato visto da molti come uno spartiacque: è la prima volta dalla caduta del muro che un ministro-presidente della Linke viene eletto nello stato che un tempo apparteneva alla ex DDR.
Ramelow è stato anche nominato dalla GDL come arbitro nella prossima fase dei negoziati con la Bahn. Al momento, però, esiste ancora un forte consenso in Germania secondo cui il partito della Sinistra non dovrebbe entrare nel governo federale. Inoltre, molti membri della SPD non hanno ancora perdonato la Linke per aver scisso in due la sinistra ai tempi del governo Schröder. È una frattura che la SPD sta scontando ancora oggi. Molti membri della Linke sono altrettanto scettici: non vogliono entrare nel governo o rinunciare agli elementi più irrealistici del loro manifesto. Questo è vero soprattutto nella Germania Ovest, dove il partito gioca un ruolo meno importante e può dunque permettersi posizioni più radicali. Ad ogni modo, finché la sinistra rimane in parlamento ma è esclusa – o si auto-esclude – dal governo, non si vedranno significativi cambiamenti di rotta nella politica tedesca. In questo senso, la Germania dal 2005 si può definire una sorta di “democrazia bloccata”, come era definita l’Italia durante la Prima Repubblica.