Roma – Una battuta d’arresto per il Pd, un’avanzata dal Movimento 5 stelle, seppure non in tutta Italia, un centrodestra che funziona dove si presenta unito e con toni moderati, c’è poco spazio a sinistra del Pd, ma è abbastanza per superare lo sbarramento del 3% previsto dall’Italicum per le elezioni politiche: è questa la fotografia emersa dal primo turno delle amministrative 2016 per il rinnovo di 1.342 consigli comunali.
Il Pd del segretario-premier, Matteo Renzi, conquista al primo turno Cagliari, dove il centrosinistra si è presentato unito, ma è costretto al ballottaggio per provare a confermare i sindaci uscenti a Torino (Piero Fassino) e Bologna (Virginio Merola), che si contenderanno il rinnovo del mandato rispettivamente con la candidata M5s, Chiara Appendino, e del centrodestra, Lucia Borgonzoni. A Milano, obbiettivo ballottaggio raggiunto con Giuseppe Sala, anche se il distacco tra il candidato di Renzi e quello del centrodestra, Stefano Parisi, è inferiore a un punto percentuale. A Napoli la nota più dolente per i dem, con la candidata Valeria Valente che non accede al secondo turno e lascia all’esponente del centrodestra, Gianni Lettieri, il compito di sfidare il sindaco uscente Luigi De Magistris, il quale ha pressoché doppiato i due principali contendenti.
“Non siamo contenti” anche se il risultato “non è una debacle”, tira le somme il segretario dem. “Volevamo fare meglio, soprattutto a Napoli”, ammette. Ma detto ciò, “non c’è un giudizio nazionale univoco” da questa tornata elettorale, a suo avviso, perché “non c’è più un voto omogeneo” e “gli elettori fanno zapping con la scheda elettorale”.
Il Partito democratico perde terreno soprattutto nelle grandi città, e non sembra più essere la formazione politica che soffre meno l’astensione, aumentata di oltre 5 punti percentuali dalla scorsa tornata, visto che l’affluenza si è attestata al 62,1% contro il precedente 67,4%. La minoranza del partito del premier imputa la frenata allo stesso Renzi, colpevole, sostengono i dissidenti dem, di aver condotto una campagna troppo incentrata su un altro obbiettivo: la vittoria al referendum di ottobre per la conferma della riforma costituzionale.
In effetti, Renzi si è impegnato soprattutto negli ultimi giorni, andando a sostenere i propri candidati nelle grandi città. Tuttavia, si è preoccupato non tanto di tirare la volata ai suoi quanto di affrancare il governo da possibili contraccolpi del voto amministrativo – “non avrà alcuna conseguenza”, sosteneva con l’avvicinarsi della chiamata alle urne – e a perorare la causa referendaria del sì. Una battaglia, quest’ultima, a cui lo stesso premier ha legato il proprio futuro politico, ma in vista della quale le urne di ieri non hanno dato segnali incoraggianti, sebbene per Renzi il voto amministrativo “non è legato in alcun modo al referendum”.
Il problema del risultato non esaltante, secondo la minoranza dem, è stato proprio la disaffezione degli elettori di sinistra del Pd, quelli più critici verso le riforme fatte dal governo, indica l’ex segretario Pierluigi Bersani. Nella maggioranza Pd, invece, c’è chi ipotizza – ma non lo dice apertamente – uno scarso impegno in campagna elettorale dei dissidenti del partito, con l’obiettivo di mettere in difficoltà il segretario-premier.
Se fosse vero, nulla impedirebbe il ripetersi della situazione anche al referendum di ottobre. Dunque, per convincere la minoranza del suo partito a remare nella stessa direzione, nei prossimi mesi il premier potrebbe essere tentato di riaprire la discussione sulla legge elettorale contestata dalla sinistra del partito. Pare difficile, perché finora Renzi ha sempre detto di non voler rimettere mano all’Italicum, ma la necessità di evitare il fuoco amico al referendum di ottobre potrebbe consigliare al premier un passo indietro su questo fronte.
Il voto di ieri ha dato indicazioni anche agli altri attori in campo. Nel centrodestra, il conflitto tra Lega e Fratelli d’Italia da una parte e Forza Italia dall’altra si conclude a vantaggio del tandem Matteo Salvini-Giorgia Meloni. Il Carroccio diventa quasi ovunque il primo partito del centrodestra, e Meloni, pur non raggiungendo il ballottaggio a Roma, riesce a doppiare i voti di Alfio Marchini, sotenuto da Silvio Berlusconi. Tuttavia il segnale è ambiguo, perché solo dove il centrodestra ha corso unito – e senza i toni accesi da destra lepenista – come a Milano, la coalizione è riuscita a essere incisiva e può sperare di contendere la guida della città al Pd.
I cinque stelle confermano le attese con l’ottimo exploit di Virginia Raggi a Roma, che con il 35,2% dei voti dà oltre 10 punti di distacco al suo sfidante per il ballottaggio, Roberto Giachetti. Bene anche il risultato di Torino, dove Appendino darà battaglia al sindaco uscente Fassino. Ma in altre realtà importanti, come Milano e Napoli, il Movimento di Bappe Grillo arranca e mostra di non avere ancora i numeri per porsi come una forza antagonista capace di conquistare il Paese.
Infine, lo spoglio delle schede ha riservato un messaggio anche a sinistra del Pd. Le candidature di Stefano Fassina a Roma (4,4%) e di Giorgio Airaudo a Torino (3,7%) indicano che i margini di manovra in quell’area sono molto limitati. Anche se i dati indicano che una coalizione di sinistra sarebbe in grado di superare la soglia di sbarramento al 3% prevista dall’Italicum per le elezioni politiche. Se ciò sia sufficiente a stimolare altre defezioni nel partito del premier è difficile dirlo. Per capire cosa si muove nel Pd toccherà aspettare il secondo turno del 19 giugno prossimo, quando si capirà meglio anche l’impegno della minoranza dem nella campagna per i ballottaggi. Lì, Renzi si renderà conto se può contare su un partito che insegue compatto obiettivi comuni, o se dovrà cominciare a preoccuparsi seriamente in vista del referendum.