La scarsissima affluenza alle urne registrata dalle elezioni europee in Croazia dà la misura dell’infima popolarità di cui l’Unione europea gode oggi nel nostro continente, perfino fra i paesi che sognavano di potervi un giorno aderire. Nel 1950, quando Tito teneva la Iugoslavia con il suo pugno di ferro, solo due anni dopo le feroci purghe antisovietiche, andò a votare il 91,86% degli iugoslavi. Nel 2013, per la prima elezione del parlamento sovranazionale che è il simbolo dell’Europa pacificata e libera dalla dittatura, solo il 21% dei croati hanno esercitato il loro diritto di elettori. Un risultato che è la più amara prova dello stallo del progetto europeo e della sua totale mancanza di attrattiva in uno dei paesi emersi dall’esplosione della Iugoslavia. La tanto agognata Unione europea ai croati oggi non piace più. Ma se si risale all’origine della vicenda iugoslava, si scopre che fin dallo scoppio delle prime ostilità nel 1992 l’Europa non ha saputo dare ai popoli iugoslavi altro che idee vecchie per far fronte alla loro crisi e nessuna alternativa alla guerra. Tutti ricorderanno la reazione in ordine sparso dei paesi europei alla proclamazione di indipendenza di Slovenia e Croazia, subito riconosciute da Germania, Austria e Vaticano.
Tutti oggi possono valutare quanto peso ebbero questi inaccorti riconoscimenti nel disastro che seguì. L’Europa disunita e confusa non seppe offrire alla Iugoslavia altro che il suo vecchio modello di stato nazione e questa miope soluzione incoraggiò con le sue successive missioni di pace. In altre parole, invece di incoraggiare il mantenimento della federazione e lo spirito multietnico iugoslavo, si favorì la nascita di una costellazione di stati aberranti e spesso insostenibili, nel nome di un incongruo principio di nazionalità. Oggi la divisione artificiale dell’ex-Iugoslavia appare ancora più evidente dall’invenzione linguistica in cui si sono avventurati molti dei suoi stati, chiamando con tre nomi diversi quel che è in pratica la stessa lingua. Così sono nati il bosniaco, il montenegrino e il serbo, con grande ludibrio di interpreti e traduttori che cambiando qualche parola qua e là, si sono ritrovati a parlare tre lingue in una. Un’altra deriva dello stato nazione, che ha bisogno della lingua per definirsi, un’ennesima aberrazione di quello spirito populista che cova ovunque in Europa e di cui è una manifestazione anche l’insensato movimento delle cosiddette “nazioni senza stato”. Una malattia genetica dell’Europa, incapace di pensarsi come comunità e sempre alla ricerca di nuove divisioni che distolgono gli europei dall’unica via praticabile che è quella dell’integrazione. Un chiaro segno che in questo continente abbiamo sempre bisogno frontiere e appena ne cancelliamo alcune, subito ne tracciamo altre. Così la Croazia oggi si chiude nel suo piccolo cortile balcanico e preferisce farsi comperare dai russi che aprirsi ai suoi storici vicini. Tutto questo è da mettere nel conto della pochezza di cui è oggi prigioniera la costruzione europea, della mancanza di ideali che la soffoca, della castrazione cui sono condannate le istituzioni di un progetto politico un tempo rivoluzionario oggi ridotte a un ruolo di amministratore di condominio.
Diego Marani