
Giovedì scorso sul nostro blog personale abbiamo pubblicato un post dal titolo “Il problema non è l’inflazione… ma la deflazione”. «The Economist», che è uscito in edicola venerdì mattina, sostiene in uno dei suoi leader d’apertura, The perils of falling inflation, ‘I pericoli di un’inflazione in caduta’, la stessa tesi. I banchieri centrali, sostiene l’«Economist», hanno avuto per decenni il compito di tenere sotto controllo l’inflazione. Ma oggi questo compito non ha più senso. Il più grande problema che l’Europa (e anche gli Stati Uniti) debbono affrontare oggi non è quello dell’inflazione, ma della deflazione, cioè dell’inflazione troppo bassa o addirittura negativa.
Solo i tedeschi che hanno reagito furiosamente alla decisione di Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea (BCE) di abbassare di un ulteriore quarto di punto il tasso di interesse (dopo averlo portato allo 0,5% a maggio), sembrano non averlo ancora messo bene a fuoco. La decisione di Draghi è stata presa contro il parere di circa un quarto dei ventitré membri del board della BCE, quarto guidato naturalmente dal solito falco Jens Weidmann, che cita spesso il Faust di Goethe per sostenere che la creazione di moneta è opera del diavolo, Mefistofele in particolare. Oltre ai due rappresentanti tedeschi, hanno votato contro anche i governatori delle banche centrali di Austria e Olanda.
Secondo il capo economista del settimanale finanziario «WirtschaftsWoche» la decisione della BCE è «un diktat da una nuova Banca d’Italia con sede a Francoforte». Per il «Frankfurter Allgemeine Zeitung», la decisione della BCE dà alle banche dei paesi più indebitati e più in crisi la possibilità di indebitarsi a tassi vicino allo zero e aiutare così a finanziare a tassi più bassi il debito pubblico. L’economista più reazionario della Germania, Hans-Werner Sinn, molto seguito dai lettori di giornali popolari (meno, per fortuna, dalla Merkel) ha sparato a zero sulla BCE in un’intervista questo weekend sul «Bild Zeitung», il giornale con la più alta circolazione in Germania: «Draghi ha abusato del sistema euro consentendo ai paesi del Sud accesso a prestiti a un tasso di interesse che non avrebbero mai ottenuto sul mercato».
E se anche fosse? Cosa ci rimette la Germania? Non dico che i tedeschi dovrebbero essere solidali (in questo momento se uno menziona la parolina “solidarietà” ai tedeschi, si infuriano e cominciano a urlare), ma dovrebbe essere nel loro stesso interesse che i paesi del Sud Europa non cadano nella trappola della deflazione. I tedeschi che negli anni Trenta hanno portato al potere Hitler in un periodo di deflazione dovrebbero sempre ricordarsi – e il Giappone sta lì a ricordarcelo ogni giorno – che quando i prezzi cominciano ad andare all’ingiù non è facile riportarli all’insù. Difficile pensare a fiammate inflazionistiche nell’area dell’euro, dove il PIL è caduto del 0,4% nel 2013 ed è previsto che salirà del 1,1% nel 2014.
La situazione è ancora più drammatica in un paese come l’Italia, dove la crescita quest’anno è negativa dell’1,8% e la ripresa, se ci sarà, sarà di qualche punto decimale. Non si può escludere che, se l’inflazione continua a scendere, diventi negativa. E, come noto, il debito pubblico di un paese che ha un enorme debito pubblico, poiché il debito è fissato in termini nominali, diventa sempre più oneroso se i prezzi scendono. Come ha poi ricordato anche un recente studio di Lars Svensson della Princeton University (oltre che uno dei governatori della Banca Centrale svedese), se il tasso d’inflazione rimane al di sotto del target stabilito dalla BCE genera una disoccupazione più alta.
E poi, con l’abbassamento dei tassi che portano a un deprezzamento dell’euro, quelli che ci guadagnano di più sono proprio i tedeschi. Se non ci fosse l’euro, oggi il rapporto marco/dollaro dovrebbe essere all’incirca di 1 a 2. E anche se l’eccessiva liquidità dovesse far salire i prezzi delle case in Germania, non sarebbe un bonus per i proprietari tedeschi di appartamenti?
Nei paesi più ricchi del mondo, quelli che fanno parte dell’OECD, l’inflazione nel 2013 scenderà all’1,5%, rispetto a un livello del 2,2% nel 2012. La situazione è ancora più grave nei paesi dell’Eurozona, dove l’inflazione è scesa dall’1,1% a settembre allo 0,7% a ottobre, rispetto a un livello del 2,5% nel 2012, il livello più basso da quando è stata introdotta la moneta unica. Anche in America, nonostante la Federal Reserve (FED) immetta liquidità nell’economia attraverso il quantitative easing per 85 miliardi di dollari al mese, il tasso d’inflazione è sceso dal 2% a luglio al 1,2% a ottobre. Tutti coloro che in America e in Europa hanno gridato al lupo!, al lupo!, temendo che l’inflazione potesse andare fuori controllo quando la FED cominciò la sua politica debbono ora riflettere sul perché i prezzi al consumo non sono saliti (sono saliti solo i prezzi degli asset finanziari, basti pensare alla quotazione da bolla di Twitter), anzi la FED fatica a raggiungere il suo obiettivi inflazionistico, che è del 2% come in Europa.
Solo in Giappone – che si è addirittura dato come obiettivo principale di politica economica quello di portare l’inflazione al 2%, e per raggiungere quest’obiettivo il nuovo premier eletto a fine 2012, Shinzo Abe, ha dato ordini alla Banca Centrale di raddoppiare la base monetaria – l’inflazione è in crescita, ma a livelli ancora inferiori all’1%. Bisogna ricordare, però, che il Giappone esce da un periodo di quindici anni di inflazione negativa, cioè sotto lo zero.
Ovviamente, il rischio di un’inflazione così bassa, come è stato ben illustrato nel post precedente, è quello di scivolare in un lungo periodo di deflazione, situazione da cui, come dimostra il Giappone degli ultimi due decenni, non è facile uscire. Se i consumatori si aspettano che i prezzi in futuro possano scendere invece di salire, rinviano giustamente e razionalmente gli acquisti, indebolendo ulteriormente l’economia. Bisogna poi ricordare che i debiti, sia quelli dello Stato che quelli privati, sono espressi a livello nominale, e pertanto una caduta dei prezzi e dei salari rende sempre più difficile ripagarli. Per quanto riguarda paesi come l’Italia, con un PIL in continua discesa, anno dopo anno, anche se i debiti dello Stato restassero stabili aumenterebbe il rapporto debito/PIL, che infatti in Italia si è impennato negli ultimi anni soprattutto a causa della diminuzione del denominatore.
L’Italia, e senza dubbio gli altri paesi del Mediterraneo (Grecia, Spagna, Portogallo e anche Francia) avrebbero molto da guadagnare se i prezzi salissero a un tasso un po’ più veloce. Come sostiene un editoriale del «Financial Times» di giovedì scorso: «Un po’ di inflazione è un modo relativamente poco caro per ridimensionare i debiti pubblici». E per ridurre la disoccupazione, come viene riportato in una ricerca del capo della Commissione Monetaria della FED William English. Secondo questo studio, se la FED portasse il suo obiettivo di inflazione dal 2 al 3% la riduzione della disoccupazione sarebbe più veloce di quanto sia ora quando vengono stabiliti obiettivi di disoccupazione.
A questo punto dobbiamo cominciare a chiederci:
1) Non sarebbe ora di rivedere l’obiettivo stabilito dalla BCE di tenere l’inflazione sotto al 2%?
2) Quale potrebbe essere l’inflazione ottimale per l’Europa?
3) Supponiamo che sia del 4-5%, la BCE è in grado di farla crescere fino a quel livello senza perderne il controllo?
4) E nel frattempo cosa dovrebbe fare la BCE affinché almeno l’obiettivo del 2% venga raggiunto?
La mossa della BCE di tagliare il tasso d’interesse dallo 0,5% al 0,25%, il livello più basso da quando esiste l’euro, è una mossa che senza dubbio va nella direzione giusta, anche se arriva con troppo ritardo, forse. Ricordiamoci che il tasso della FED, che ha come obiettivo dichiarato non quello dell’inflazione in questo momento, ma di far scendere la disoccupazione, è a zero da quattro anni. Vedremo cosa le autorità monetarie decideranno nei prossimi mesi, ma sembra che la nuova governatrice della FED, Janet Yellen, non alzerà i tassi fino a quando la disoccupazione non scenderà al 5-6% (oggi è ancora al 7,3%).
Dobbiamo anche essere cauti, però, sulla capacità che un abbassamento del tasso di interesse a livelli mai visti prima possa essere efficace anche nel rilanciare le economie soprattutto di paesi come l’Italia, dove l’aumento di liquidità a prezzi stracciati per le banche non si traduce in un aumento di prestiti alle imprese o alle famiglie. La BCE deve essere disposta ad andare ancora oltre. Un’opzione potrebbe essere quella di stabilire tassi d’interesse negativi sul denaro che le banche parcheggiano presso la BCE, sperando che questo incoraggi le banche a fare più prestiti. Un’altra opzione potrebbe essere quella di fare un altro giro di quella che venne chiamata, a fine 2011, LTRO, Long Term Refinancing Operation, cioè un nuovo round di prestiti alle banche a tassi stracciati. Il problema è che non c’è nessuna certezza che le banche utilizzino questi nuovi prestiti per far credito alle imprese o alle famiglie e che non li investano tutti in bond del Tesoro, lucrando sulla differenza dei tassi.
Secondo noi, però, ci sono soluzioni ancora più creative e innovative. Una potrebbe essere quella di una monetizzazione parziale dei debiti pubblici di tutti i paesi europei, Germania compresa. Questa soluzione avrebbe vantaggi per tutti, sia per i paesi del Nord che per quelli del Sud. Anche se una soluzione di questo tipo non può essere che politica, sarebbe interessante se la BCE la cominciasse a studiare dal punto di vista tecnico. Ne riparleremo presto.
Insomma, per concludere, non c’è momento migliore di questo per fare una politica monetaria espansiva in Europa. C’è spazio per aumentare notevolmente la base monetaria senza nessun rischio d’inflazione, almeno non per alcuni anni, e se l’inflazione dovesse cominciare a crescere la BCE avrebbe tutti gli strumenti per metterla sotto controllo. Come conclude l’articolo dell’«Economist»: «Abbiata pure paura dell’inflazione, ma non dimenticate che ci sono situazioni ben più spaventose, scarier, quando l’inflazione sprofonda».
Elido Fazi