Ho recentemente seguito un corso di formazione sui media sociali dove un competente istruttore ci ha dato una completa panoramica delle più comuni piattaforme descrivendoci rischi e opportunità di ognuna, dal punto di vista personale ma anche professionale. L’istruttore era chiaramente abituato ad avere a che fare con aziende e il suo punto di vista era tutto commerciale. Parlava di marche e di visibilità, di indicatori e statistiche. Essere su Facebook aiuta le vendite, promuove il prodotto, crea immagine e permette di pilotare i gusti dei consumatori in un ambiente fluido e sempre cangiante. Una prospettiva che può essere illuminante per funzionari come noi che vediamo tutto spesso solo dal pachidermico punto di vista istituzionale e che fatichiamo a comunicare in modo efficace con il mondo esterno.
Ma quando ho sentito l’istruttore affermare che la Commissione europea non può non essere su Facebook se vuole vendere il suo prodotto, mi è venuto da storcere la bocca. Ho obiettato che noi non abbiamo niente da vendere, noi facciamo leggi, seguiamo la loro applicazione, conduciamo politiche, finanziamo progetti e ne verifichiamo l’efficacia e la corretta realizzazione. Potremmo tutt’al più usare Facebook come strumento per promuovere nostre iniziative, magari aprendo profili specificamente legati all’una o all’altra azione, ma senza una veste di ufficialità istituzionale. E del resto già lo facciamo. Ho fatto notare che un’istituzione deve usare altre vie per raggiungere il cittadino, che per questo ci sono i nostri servizi di informazione e gli speculari uffici degli Stati membri, fino a regioni, province e comuni, perché noi operiamo attraverso strumenti giuridici e procedure, non organizziamo raduni virtuali e gruppi di fan. Questi servizi magari si possono migliorare, ma non scavalcare usando Facebook. Ho insistito sul fatto che un’istituzione non può sottoporsi ai “mi piace” di un social media come fa un adolescente con le foto delle sue vacanze.
Con mia grande sorpresa, il mio intervento è stato accolto dalla perplessità dell’istruttore e soprattutto dalla massiccia contrarietà delle mie dodici colleghe, invece convinte che essere su Facebook sia una necessità indiscutibile, ancora di più per un’istituzione che si vuole democratica e che viene spesso accusata di essere lontana dal cittadino. Alcune delle mie molto connesse colleghe mi hanno assicurato che i profili Facebook dei loro servizi hanno molto seguito, sono costantemente aggiornati con le ultime notizie della Direzione generale e quando non c’è nulla di nuovo, anche con ricette di cucina e consigli utili. Davanti a una così convinta e unanime replica, ho cominciato a pensare di essere io troppo vecchio e troppo legato, malgrado i miei sforzi di aggiornamento, a modalità comunicative d’altri tempi.
L’istruttore, dopo avere ascoltato annuendo le obiezioni delle mie colleghe alle mie osservazioni, ha voluto concludere constatando l’evidenza che al giorno d’oggi per comunicare efficacemente con il cittadino-consumatore bisogna assolutamente essere sui social media. Allora ho capito dov’era l’equivoco, e nel sentirmi infine illuminato mi sono sentito anche profondamente desolato. “Cittadino-consumatore” ha detto l’istruttore con serena certezza. Neanche l’ombra di un dubbio sulla sua faccia che i due siano concetti profondamente diversi. Neanche su quello delle mie colleghe. Stavo per alzare la mano e avventurarmi a spiegare che cittadino e consumatore non sono per niente la stessa cosa, che il cittadino vota e cambia i governi, che gode di diritti che sono costati la morte a milioni di persone e che invece il consumatore è solo una parte in uno scambio commerciale, che non ha nessuna responsabilità verso la società e agisce per il suo puro interesse privato. Che si può essere schiavi e consumatori, ma schiavi e cittadini mai.
Ma poi no, ho lasciato perdere. Ho capito che aveva ragione l’istruttore assieme alle mie dodici colleghe. Se non riusciamo a raggiungere il cittadino, forse è perché il cittadino non c’è più: è rimasto solo il consumatore. O forse perché dodici su tredici di noi la pensano così. Non ci resta dunque che trasformarci in detersivo. E cercare di venderlo.
Diego Marani