di Matteo Pucciarelli
C’è uno spot elettorale di Syriza segnalato su Twitter da Leonardo Bianchi, risale a qualche mese fa, me lo riguardavo sere fa con una certa malinconia. Avevo avuto la fortuna di ritrovarmi davanti all’università di Atene, lo scorso gennaio, quando Alexis Tsipras fece il suo discorso dopo la vittoria delle elezioni.
Ne ricordo i festeggiamenti, e anche se mi trovavo lì nelle vesti di cronista non si poteva proprio rimanere indifferenti. Avevi la sensazione che, per una volta nella vita, avesse vinto qualcosa e qualcuno di giusto. Senza macchie, senza ombre. Il giorno dopo sarebbe cominciato un percorso complicato, forse impossibile – lo si sapeva anche allora – ma il cambiamento era enorme: quella sinistra lì la stava smettendo di formare la propria identità sull’opposizione e prendeva il pallino in mano. Non accodandosi ad altri, ma essendo pienamente se stessa.
L’esperienza di una sinistra di governo arrivata fin lì grazie alla propria radicalità era (è) un caso unico in Europa. Quel successo sovvertì tutte le regole che fino a quel momento avevano contraddistinto il dibattito nel largo mondo della sinistra: per vincere – si diceva sempre – bisognava guardare al centro, moderarsi, scendere a patti di ribasso. Per quello fu un giorno storico: chi non voleva rimanere incastrato nel falso dilemma “pragmatismo vs. utopia” trovò una strada possibile, praticabile.
Quando Tsipras indisse il referendum, tre settimane fa, dimostrò di seguire ancora quella strada. La radicalità dell’agire politico, coniugata alla pratica. La capacità di strappare, di dare risposte forti, anche potenzialmente conflittuali. Nella convinzione un po’ romantica, chissà, che i buoni vincono; che il coraggio paga sempre.
La vittoria del “no” è stata forse più emozionante di quella delle scorse elezioni. C’era tutto l’orgoglio e la dignità di un popolo (non tutto unito, indistinto, se ne sentiva una fisionomia che anni fa si sarebbe definita “di classe”; non a caso nei quartieri benestanti di Atene aveva stravinto il “sì”) che, seppure con la pistola alla tempia, sceglieva di non piegarsi. Una ribellione genuina, diffusa e di buonsenso: se l’austerità aveva fallito così miseramente negli anni precedenti – fatto inoppugnabile e ammesso dagli stessi somministratori – che senso aveva continuare su quella strada?
E invece i nodi di tutto un percorso politico durato anni e anni sono venuti al pettine nel giro di 24 ore.
Perché Syriza è un partito dalle idee radicali, ma non rivoluzionarie. Non propone un nuovo sistema, ma la democratizzazione del sistema stesso. Il percorso più accidentato possibile, a ben pensarci: perché se sei interamente organico a quel modello, come ormai lo sono le sinistre “riformiste”, in pochi serberanno speranze nei tuoi confronti. Se fallirai, se ne lamenteranno quei pochi. Mentre se sei un antisistema, quindi destinato ad ottenere un consenso limitato e inutilizzabile, nessuno avrà mai la controprova della bontà della trasformazione di cui parli.
Negare che la radicalità di Syriza stavolta si sia schiantata contro il muro di una realtà forse inaspettata nella sua solidità sarebbe sciocco. Raccoglierne i cocci non sarà semplice, anche fuori dalla Grecia: qualcuno tornerà a pensare che vince la moderazione, lo stare al proprio posto amministrando il presente con la passione e l’ambizione di un ragioniere; altri torneranno a farsi crogiolare dalle sirene del massimalismo.
La delusione cocente di molti, oggi, è forse figlia di un fraintendimento per un lato (appunto: non c’era nessuna rivoluzione alle porte, non c’è mai stata); e di una errata valutazione delle forze in campo dall’altro (un governo scomodo di un piccolo paese solo contro un intero establishment dotato di risorse economiche e di una narrazione efficientistica della realtà ancora oggi egemonica).
La delusione è umana ma, se diventa subito miscredenza, rasenta l’ignoranza. Il non sapere cioè che i processi di cambiamento sono rapidi solo quando di mezzo c’è l’utilizzo della forza (e della violenza). Se invece – come si propone Syriza e tutta la sinistra europea nel suo complesso – si tenta una strada prima che politica addirittura culturale (modificare il paradigma) allora quanto avvenuto cambia di prospettiva. La piccola e insignificante Grecia ha dimostrato ai cittadini europei ciò che prima denunciavano in pochi: la fragilità di un’Unione dilaniata dagli egoismi; lo strapotere dell’economia sulla politica; il commissariamento di governo eletti dai cittadini da parte di istituzioni non democratiche considerate alla stregua di entità divine.
La denuncia si è trasformata in verità, in dimostrazione pratica. Sul muro finora immacolato del potere europeo è apparsa una piccola crepa. Pretendere oggi il suicidio della Grecia in nome di una coerenza fine a se stessa, come quello di un fedayn imbottito di tritolo contro un bunker atomico, noi spettatori indisturbati davanti al televisore, è la via più semplice per placare la paura di non farcela. E magari per dare a qualcuno un comodo lasciapassare: non ti affliggere – ammesso che tu l’abbia mai fatto – il mondo è questo, non lo cambierai mai.
La crepa invece è lì.
Articolo pubblicato su MicroMega il 20 luglio 2015.