Secondo le stime degli storici militari, i cani “combattenti” uccisi nel corso della Prima Guerra Mondiale furono all’incirca un milione. Prestavano servizio come sentinelle, porta messaggi, mascotte e accompagnavano i soldati umani anche all’attacco dei nemici. Quella guerra toccò molto meno gli animali da compagnia “civili”. Allo scoccare della Seconda Guerra Mondiale invece, i conti cominciarono subito a ragguagliarsi… La Nota Diplomatica di James Hansen di oggi tratta uno dei più bizzarri – e meno conosciuti – episodi dell’ultimo conflitto.
La guerra dei pets
Il Regno Unito, insieme con la Francia, dichiarò guerra alla Germania nazista alle 11.15 (ora di Londra) del 3 settembre 1939 dopo il rifiuto tedesco di ritirare le truppe dalla Polonia, la cui indipendenza era stata garantita per trattato da Parigi e Londra. Le prime vittime occidentali furono 400.000 cani e gatti britannici, soppressi non solo in gran numero ma in gran fretta dai loro padroni. Si stima che, nei primi quattro giorni dopo l’annuncio delle ostilità, nella sola Londra si fece fuori il 26 percento degli animali da compagnia residenti nella città. Le cronache raccontano di un canile dove un’ordinata fila di persone lunga oltre un chilometro aspettò tranquilla con gli animali in braccio per dargli la morte. I crematori non riuscivano a far fronte ai volumi— anche perché, per via del coprifuoco, non potevano operare di notte. Un solo “cimitero”, un campo in periferia, accolse oltre mezzo milione di animali prima della fine dello sterminio.
Nessuno aveva chiesto agli inglesi di farlo, non c’erano disposizioni governative in quel senso, i veterinari e gli enti a favore degli animali lo sconsigliavano. Era la reazione spontanea di un’intera popolazione terrorizzata dal ritorno della guerra e ben memore delle terribili privazioni della Prima Guerra Mondiale, conclusasi meno di una dozzina d’anni prima. Secondo la storica Hilda Kean, nel suo libro “The Great Cat and Dog Massacre” (University of Chicago Press, 2017), il Paese cominciò presto a pentirsene. Già a novembre il Times poté scrivere che mentre “ci sono ancora prove quotidiane che si sopprimano un gran numero di cani… ciò dimostra solo l’incapacità dei padroni di comprendere i loro obblighi verso gli animali”. Anche la BBC prestava il suo peso per fermare la strage: Christopher Stone, il primo disc jockey della radio pubblica inglese, avvertì i suoi ascoltatori che: “Uccidere un fedele amico animale senza causa (equivale a) permettere alla guerra di insinuarsi nelle vostre case”.
La spiegazione offerta dalla Kean è che gli animali da compagnia in quel frangente venivano percepiti da molti come un inutile—perfino biasimevole—lusso. Rispetto al passato rurale del Paese, avevano perso l’utilità primitiva avuta come animali da guardia o per la soppressione dei topi. Molte persone poi si ricordavano dei randagi affamati che si aggiravano per le strade durante la Grande Guerra, quando non c’era abbastanza da mangiare per le persone, figuriamoci per le bestie—e il Times allora (1915) opinava: “Quando ogni penny serve all’Impero, non è il caso di lagnarsi per i gatti”. La studiosa riconosce che pure l’affetto—la volontà di dare una morte dignitosa all’animale—era un elemento della decisione di uccidere “un membro della famiglia”.
Alcuni genitori in quei giorni concitati prospettavano persino di cercare una fine ordinata per l’intera famiglia prima di vivere sotto l’orrore del nazismo. Una casalinga scrisse nel suo diario per il progetto di ricerca sociale Mass Observation: “Ho veleno sufficiente per una dose letale per me, per mio marito e tutti i figli. Ricordo l’ultima guerra, non voglio passarne un’altra, e nemmeno che la passino i bambini. Non gli dirò niente, lo farò e basta”. Per fortuna, non toccò agli inglesi abbattere la propria prole, sia per le sorti favorevoli del conflitto sia perché i loro animali avevano “già dato”.