di Sergio Farris
Dopo l’esposizione delle “Considerazioni finali” il 31 maggio, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è tornato, al Festival dell’economia di Trento, a toccare la questione della “risoluzione” delle banche in difficoltà. Visco ha ribadito la difesa “d’ufficio” dell’azione di vigilanza espletata dall’istituto di via Nazionale. La Banca d’Italia ha vigilato, e, all’occorrenza, ha sanzionato. Il tema del risparmio privato è politicamente caldissimo. Lo è al punto da non lesinare frecciate all’indirizzo dell’Unione europea, rea del fatto che, dietro lo schermo del principio di tutela della concorrenza, vieta allo Stato italiano di aiutare le banche, e lo ha costretto verso la fine del 2015 (poco prima dell’entrata in vigore delle regole sul bail-in) ad applicare il “burden sharing”, ovvero a chiedere il sacrificio dei risparmiatori privati (azionisti e detentori di passività subordinate) in occasione della “risoluzione” delle quattro piccole banche CariChieti, CariFerrara, Etruria e BancaMarche.
Ma non sarà ossimorico che Visco si sbraccia per invocare l’intervento con risorse pubbliche dello Stato quando si tratta di andare in soccorso del settore finanziario privato (come è stato nel caso del MontePaschi e come vorrebbe nel caso delle banche venete in apnea) mentre, nel contempo, auspica una drastica “cura da cavallo” per il bilancio pubblico (avanzi primari del 4% per un decennio)? Come si spiega il suo l’atteggiamento bifronte verso le istituzioni europee, stizzito in un caso per l’obbligo di sigillare la borsa e salvifico nell’altro tanto da auspicare senza remore l’uso spregiudicato delle cesoie? Forse perché il tema del risparmio individuale è culturalmente (e quindi politicamente) affine all’ideologia maggiormente diffusa, al “senso comune”. Ciò consente, insieme alla giustificazione “ufficiale” della necessità di garantire un idoneo flusso di credito all’economia, la tutela degli interessi dei protagonisti del mondo finanziario. Ma, di ciò cosciente o meno, l’essenziale è che il piccolo risparmiatore si senta, nel suo microcosmo, protetto.
Ciò si ricollega all’elemento caratteristico del capitalismo attuale: la finanziarizzazione del sistema economico. Con l’implicazione che solo il debito pubblico è deteriore e va abbattuto, perché sottrarrebbe risorse al cittadino privato. Il risparmio privato è invece virtuoso, purché sia adeguatamente canalizzato nel sistema bancario il quale a sua volta, si impegna a riversarlo nei mercati finanziari che, per incanto, assicurano l’accrescimento del capitale risparmiato con continue addizioni di rendita. Così, si procede a passo spedito verso la privatizzazione degli schemi previdenziali, verso la finanza di progetto applicata predatoriamente allo scopo di speculare sulla costruzione di opere pubbliche, alle concessioni a operatori privati dei servizi pubblici essenziali (magari al prezzo di aumenti delle tariffe, ma, è risaputo, gli enti pubblici non detengono mai risorse sufficienti per gli investimenti), ai dividendi associati al possesso delle azioni quotate in borsa, ed altro ancora.
Il tenore di vita anche di lavoratori e pensionati viene, in teoria, sempre più a dipendere dai rendimenti che, si spera, sono ottenibili nei mercati finanziari. Ogni ambito dell’esistente viene a essere subordinato al giudizio che un nugolo ristretto di agenti (come le cointeressate agenzie di rating) può riservare ai titoli emessi da enti pubblici e privati. Immancabili, in ogni telegiornale, sono le declamazioni degli indici di borsa. L’entità del debito pubblico (che contiene anche le provvidenze per i più deboli) deve essere contenuta, perché, secondo la vulgata del terrore, il rendimento dei titoli di Stato (il “benchmark” del mercato) deve riflettere una condizione di solvibilità del sistema paese.
Il tradizionale conflitto distribuivo sul prodotto reale è sempre più velleitario, per cui il reddito medio da lavoro tende a calare mentre, contestualmente, la ricchezza si polarizza a vantaggio di pochi. Il processo può proseguire fino a quando si palesa il fatto che la rendita è venuta a costituire una forma falsata di arricchimento, inabile a fungere da terreno sul quale dovrebbe svolgersi la tipica riproduzione del capitale “reale”. È il crollo. A tal punto, puntando sull’evanescenza della coscienza critica in coloro che dovrebbero costituire il naturale antagonista del suddetto processo (e ne sono invece stati sussunti), chi detiene le leve del sistema finanziario si adopera affinché politici e banchieri centrali ricreino le condizioni tali da consentire la partenza di un “nuovo” ciclo (ad esempio, politiche monetarie ultraespansive). È quello che è accaduto immediatamente dopo il “crack” del 2008, la cui onda ancora oggi si propaga. Come la preoccupazione per il salvataggio delle banche private mostrata dal governatore Visco rivela. Le sue critiche rivolte alle istituzioni Europee raccontano anche di una contesa intraeuropea fra capitali finanziari. Ma, a prescindere dall’esito più o meno positivo di detta contesa (finora, pare, per noi irrimediabilmente negativo) il dato di fondo non muta. Austerità pubblica in cambio della promessa di una rendita privata.