L’accordo è fatto, il governo di Londra e il Consiglio europeo lo hanno approvato, ora non resta che l’approvazione del parlamento britannico (prima) e di quello europeo (dopo). Poi sarà necessario un nuovo passaggio, puramente formale, in Consiglio europeo e la separazione ordinata della Gran Bretagna dall’Unione europeo potrà iniziare il prossimo primo novembre.
In teoria.
Perché in pratica il primo di questi passaggi è pieno di incognite, politiche e legali. Detto che a Westminster al momento non c’è una maggioranza a favore dell’accordo, il Benn Act è il primo ostacolo sulla strada di Boris Johnson. Secondo questa norma, approvata lo scorso settembre, nel caso che “entro il 19 ottobre” non ci sia l’approvazione parlamentare di un accordo o di una nuova norma che scelga di andare alla Brexit senza accordo alla data per ora prevista per il 31 ottobre, il primo ministro è obbligato a chiedere al Consiglio europeo una proroga della data di uscita fino al 31 gennaio 2020, per avere il tempo “di discutere ed approvare un accordo di separazione”. Una Corte scozzese ha confermato la validità di questa prescrizione, dunque sembra che Johnson, benché lui continui a dire che non chiederà mai una proroga in caso di bocciatura dell’accordo firmato oggi a Bruxelles, sia costretto a chiedere un rinvio della separazione.
Non è però chiaro cosa possa succedere al primo ministro se violerà la legge e non chiederà un rinvio. Sopratutto: se Johnson non chiede il rinvio e il primo novembre la Gran Bretagna sarà fuori dall’Unione, che importanza pratica avrà poi il procedimento legale nei suoi confronti? Avrà un peso politico, ma il danno sarà già stato fatto, la Brexit sarà oramai operativa, senza accordo, e con un premier sotto inchiesta. Il massimo del caos, probabilmente.
Le opposizioni però stanno lavorando alacremente a soluzioni alternative alla pura e semplice approvazione dell’accordo che Johnson ha firmato a Bruxelles. Molti da sinistra ne contestano parti che sono rimaste uguali all’intesa firmata da Theresa May, per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, o le tutele ambientali. Un’idea alla quale si lavora è di blindare insieme all’approvazione dell’Accordo di recesso anche un referendum confermativo. Secondo alcuni osservatori esperti del sistema politico britannico potrebbe esserci una leggera maggioranza di deputati favorevole a questa opzione: otto persone. Sarebbe necessario qui, evidentemente, chiedere un rinvio della data di uscita ai governi dei 27, che con ogni probabilità lo concederebbero.
Nel caso di bocciatura pura e semplice dell’Accordo però non è detto che il Consiglio europeo concederebbe una proroga, anche se Johnson la chiedesse. Se non c’è un “motivo” per un rinvio, è stato affermato più volte a Bruxelles, non può esserci nessuna concessione, anche se la si vorrebbe tanto concedere pur di evitare il caos. Un motivo sarebbe certo un referendum, ma lo sarebbero anche delle elezioni anticipate, o forse anche uno straccio di approvazione parlamentare di qualcosa che si possa dire potrà portare a una qualche approvazione di un accordo.
Una cosa abbiamo imparato seguendo la vicenda Brexit: mai tentare di prevedere il futuro. Bruxelles disse che l’accordo con May era “il migliore possibile” e oggi l’ha cambiato con una altro “migliore possibile”, Johnson diceva di non voler negoziare nulla e poi lo ha fatto. I laburisti chiedono le elezioni anticipate e poi in parlamento votano contro la richiesta di elezioni anticipate.
Aspettiamo dunque sabato la riunione della Camera dei Comuni. E’ garantito che qualcosa di interessante (e complicato) succederà. Magari si dovrà di nuovo scovare qualche precedente di qualche secolo fa (in questa vicenda si è risaliti fino ad atti degli anni’40 del XVIII secolo…) per decidere quali siano le procedure costituzionali più adatte.
Quel che è certo è che a Bruxelles, in caso di bocciatura dell’accordo in parlamento, accetteranno (quasi) qualsiasi pretesto per concedere una proroga ed evitare una Brexit nel caos.