Bruxelles – Prima ancora che una questione politica – e umana, non sono mai sufficienti le volte in cui è necessario ricordarlo – si tratta di una questione giuridica. Gli Stati membri Ue hanno l’obbligo di salvare le vite delle persone migranti che si trovano in una situazione di difficoltà in mare e di cui sono a conoscenza. Eppure la Commissione Europea sembra aver completamente perso la bussola legale (e tra legalità e moralità il legame è forte) nel richiamare i governi nazionali ai propri doveri se non rispettano gli obblighi internazionali. Anche quando si tratta di tragedie che continuano a trasformare il Mar Mediterraneo nel più grande cimitero del mondo.
Sono diversi gli aspetti su cui questa Commissione negli anni è gradualmente scivolata verso l’apatia e le dichiarazioni di circostanza. Comunicativi, in primis, ma anche politici e giuridici, appunto. Lo ha dimostrato l’ennesimo naufragio di un peschereccio nel Mar Egeo con a bordo più di 700 persone (i pochi sopravvissuti riportano di un centinaio di bambini nella stiva), in cui la Guardia Costiera greca potrebbe essere responsabile di non aver avviato un’operazione di ricerca e soccorso in mare nonostante fosse stata allertata della situazione di pericolo, come riporta il servizio che fornisce assistenza alle persone migranti nel Mediterraneo Alarm Phone. “Ogni vita persa è una tragedia e i nostri pensieri vanno alle famiglie dei migranti che hanno perso la vita”, parola della portavoce della Commissione responsabile per gli Affari interni e la migrazione, Anitta Hipper. È un messaggio semplicemente dovuto, ma che non può giustificare la mancata risposta alle domande della stampa (una costante nella comunicazione di questo esecutivo Ue) sulla necessità per l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (Frontex) di aprire un’indagine sull’operato delle autorità greche. Ancora più grave se – a domanda precisa reiterata – il portavoce-capo Eric Mamer risponde che “la priorità ora è fare tutto il possibile per le operazioni di ricerca, non è il momento di rispondere alle domande sulle possibili investigazioni da parte di Frontex“. Come se le due cose fossero in contraddizione, come se le due azioni non possano essere portate avanti in parallelo.
Ma al di là della comunicazione – che mostra altri palesi scivoloni come “siamo in una sala stampa, parliamo di qualcosa che non conosciamo“, o “è un tema troppo delicato per lasciare che le passioni possano prendere il sopravvento” – al centro di tutti i problemi della Commissione sulla questione dei naufragi e delle persone migranti in mare (e non) c’è il suo ruolo di custode dei Trattati Ue e del rispetto degli obblighi internazionali degli Stati membri dell’Unione. Perché si può parlare all’infinito delle modalità di gestione della migrazione e delle sue cause, ma su un aspetto non c’è nulla di cui discutere: fornire assistenza a chiunque si trovi in difficoltà in mare è un obbligo legale anche per i Paesi dell’Ue, stabilito dal diritto internazionale. A sostenerlo è lo stesso esecutivo comunitario nella sua pagina web su Search and rescue (ricerca e soccorso), con un richiamo ai trattati in materia: la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare del 1974, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1979, la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio in mare del 1979, “nonché il diritto dell’Unione Europea“. In conferenza stampa basterebbe solo leggere queste poche righe.
La Commissione scrive – ma ha smesso di affermare pubblicamente – che secondo la Convenzione Sar (quella di Amburgo del 1979) “i Paesi contraenti sono obbligati a sviluppare servizi di ricerca e salvataggio marittimo e ad adottare tutte le misure urgenti per garantire l’assistenza necessaria a qualsiasi persona che si trovi, o sembri trovarsi, in difficoltà in mare” e questo include anche “il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso fino a quando le persone assistite non vengono portate in un luogo sicuro”. Di fronte agli allarmi lanciati dalle Ong e da Frontex, le giustificazioni della Guardia Costiera greca secondo cui “le persone in difficoltà non hanno voluto essere soccorse in Grecia” sono piuttosto deboli: la stessa Convenzione precisa che “qualora lo Stato competente per quella area Sar non assuma il coordinamento delle operazioni di soccorso, tali operazioni vengono coordinate dall’Autorità nazionale Sar che, per prima, ne ha avuto notizia ed è in grado di fornire la migliore assistenza possibile“. Anche la Guardia Costiera italiana e quella maltese erano state allertate prima del naufragio al largo di Pylos nella notte tra il 13 e il 14 giugno e le autorità greche avrebbero dovuto giustificare la propria impossibilità di rispettare i propri obblighi.
È questo il “contesto ben conosciuto da tutti” a cui il portavoce-capo della Commissione dovrebbe riferirsi. E che invece non è stato fatto oggi, non è stato fatto a metà marzo con il naufragio al largo della Libia (47 morti) e non è stato fatto nemmeno a fine febbraio con il naufragio al largo di Cutro (almeno 94 morti e un numero imprecisato di dispersi). La strategia del gabinetto von der Leyen è quella di mettere il silenziatore sui richiami agli Stati membri che si affacciano sul Mediterraneo e rivendicare una responsabilità solo sul lavoro “operativo e politico, azioni che possono risolvere le ragioni che portano a questo genere di drammi”. Da una parte ci sono tutti i piani d’azione sulle rotte migratorie “per migliorare sul terreno la gestione della situazione”, anche se non è chiaro come le strategie saranno implementate. Dall’altra c’è la discussione politica per un “accordo sull’approccio coerente e con il sostegno degli Stati membri per evitare questi drammi e gestire la questione della migrazione negli anni a venire”. In altre parole, i negoziati sul Patto migrazione e asilo.
Ammesso e non concesso che questo accordo si farà – considerati i ritardi, i problemi e gli equilibri che al Consiglio Affari Interni si sono dimostrati delicatissimi – rimane tutto da dimostrare che il Patto migrazione e asilo sarà la soluzione ai mali del Mediterraneo e delle persone migranti in arrivo in Europa. Per amor di cronaca, basta solo ricordare che la Commissione non ha nemmeno presentato un impact assessment – una valutazione d’impatto, che solitamente accompagna ogni proposta legislativa – su quello che significherà in termini pratici l’applicazione dei diversi file del Patto (solo la commissione Libe del Parlamento Ue ne ha fornito uno nel 2021). Per esempio, non è dato sapere come i Med5 (Cipro, Grecia, Italia, Malta e Spagna) saranno convinti a effettuare più operazioni di ricerca e soccorso in mare, se saranno tenuti a sottoporre tutte le persone migranti salvate in queste operazioni a una procedura di frontiera accelerata di 6 mesi. O ancora, come si eviterà di costruire nuovi centri detentivi su isole come Lampedusa – in stile Lesbo – per trattenere le persone migranti salvate in mare durante il trattamento della procedura di frontiera.
“Offrire vie e mezzi legali alle persone disperate”, come ha rimarcato la portavoce Hipper, è un’affermazione imprecisa sotto molti punti di vista: ottenere un visto Schengen in molti Paesi nel mondo è praticamente impossibile e chi arriva su un barcone è “disperato” per la mancanza di alternative legali, non tanto per la mancanza di soldi. Ma soprattutto è l’ennesima promessa europea mentre, naufragio dopo naufragio, la Commissione sta perdendo la capacità di reagire contro le mancanze e le negligenze dei governi nazionali.