Bruxelles – Senza birra non c’è partita. E’ la regola degli stadi di tutta Europa, veri e propri pub alternativi. Da sempre. Heineken, Jupiler, Gambrinus, Moretti, Peroni, Sagres, Carlsberg, Budweiser. Tutte birre, tutti marchi europei (di proprietà o produzione), e con molto altro in comune: il calcio. Che si cambi Paese o brand, il risultato non cambia. Ovunque stadio è sinonimo di ‘bionda’. Un connubio che aiuta a spiegare perché il settore non conosce crisi anche quando c’è, che aiuta a capire i recenti dati Eurostat su una produzione ripartita dopo il lockdown, e uno di motivi che da quasi 140 anni traina industria e comparto.
‘Football and beer’, un sodalizio vecchio quanto il gioco del calcio. Nella patria di quello che oggi è lo sport più seguito e mediaticamente coperto, l’invenzione della disciplina si accompagna fin dagli albori ai birrifici. Il 24 ottobre 1857, in Inghilterra, la fondazione dello Sheffield, è la scintilla di tutto. La Football Association, la massima federazione calcistica inglese, vedrà la luce di lì a poco, nel 1863. Non manca molto che gli inglesi, dopo aver inventato il calcio, creano anche un modo di viverlo. Merito di John Hudding, birraio di Liverpool che nel 1884 contribuisce alla costruzione dello stadio di Anfield Road con un solo intento: vendere lì la propria birra. Un’iniziativa imprenditoriale che apre la strada ad business tutto nuovo e molto fiorente anche oggi. Oltre Manica il primo ‘boom’ del pallone è finanziato dai birrifici dell’isola. Tra il 1890 e i primi del Novecento Liverpool, Aston Villa e West Bromwich Albion ricevuto un sostegno finanziario dai produttori locali di birra. E non è che l’inizio.
L’esportazione della cultura britannica sul continente si traduce presto in uno sport da gustare, nel vero senso dell’espressione. Il modello di business cresce, sempre di più. In alcuni Paesi la scarsa tradizione di malti e luppoli non aiuta la birra a spopolare negli stadi, e bisognerà attendere due avvenimenti chiave: le coppe del mondo e l’avvento delle sponsorizzazioni. Le prime contribuiscono non poco a far conoscere un prodotto fino a quel momento poco diffuso. L’edizione del 1954, vinta dalla Germania Ovest, porta uomini di tutta Europa e di tutto il mondo a nutrire curiosità per un Paese ancora alla prese con la non semplice ricostruzione post-bellica. La scoperta delle birre tedesche su vasta scala si materializza in quel momento.
Con gli anni Settanta, l’avvento delle prime sponsorizzazioni delle squadre cambia radicalmente paradigma e panorama del sistema calcio. La birra non entra solo negli stadi, ma scende in campo. Il Belgio è uno dei migliori esempi. Nel 1972 la federazione belga dà il via a maglie con griffe commerciali. Costant vanden Stock, presidente dell’Anderlecht, la stagione successiva appone lo sponsor dell’azienda di famiglia: Belle Vue, storico birrificio di Bruxelles noto per le birre lambic e gueuze, le tipiche acidule tipiche del regno. Nel 1978 la casa Vanhonsebrouck, desideroso di conquistare fette di mercato nel settore delle birre acidule, diventa sponsor del Brugge con St-Louis, prodotto di punta del birrificio, dando avvio a quella che ancora oggi viene ricorda come ‘guerra delle Gueuze’. Una guerra commerciale e sportiva che dà i suoi frutti: il birrificio Vanhonsebrouck cresce in popolarità e domanda, diventando il secondo produttore nazionale del particolare prodotto birricolo. Ma anche il fatturato di Belle Vue cresce.
Nel frattempo Maes diventa sponsor dello Standard Liegi (1976), e forte della guerra delle Gueuze conquista il mercato delle pils. Nel 1979-80 nella serie A belga oltre allo Standard anche Charleroi e Berchem corrono sul terreno di gioco con il marchio Maes, che nel 1983 diventa fornitore ufficiale della nazionale e coinvolge il pubblico con il concorso ‘vota il miglior giocatore dell’anno’. Marketing che permette al gruppo di crescere. Un’egemonia rotta nel 1998, quando la principale concorrente delle birre leggere, Jupiler, dà il nome al campionato, imponendo negli stadi la vendita del prodotto.
Una storia analoga a tante altre in un football sempre più dominato dalle birre e dal business trainato dal calcio. Tanto che in Scozia Tennent’s arriva a essere contemporaneamente sponsor sia di Celtic sia di Rangers, nonostante la forte rivalità e le divisioni tra i due fronti. Ovunque i marchi di birra diventano sponsor ufficiali di club e non solo. Come nel caso belga iniziano a immettere soldi nelle casse delle federazioni dando il nome ai campionati: in Inghilterra (Carling, 1993-2001), Portogallo (Sagres, 2008-2010), Repubblica ceca (Gambrinus, 1997-2014), Belgio (Jupiler, dal 1998 a oggi). In Italia viene addirittura creato un’apposita competizione estiva, il trofeo quadrangolare birra Moretti (1997-2008).
Ma in un calcio sempre più business, il ‘football and beer’ non può restare a guardare. I marchi europei diventano main sponsor di competizioni continentali (Heineken la coppa Campioni e gli europei per nazioni, Amstel la coppa Uefa, Budweiser la coppa del mondo), continuando a vendere sugli spalti e non, a fatturare, a spiegare i numeri di un comparto che non conosce crisi. Cronaca e fatturati aiutano a far capire il legame non più solo culturale. Per i mondiali del 2014 il governo del Brasile ha varato un’apposita legge per eliminare il divieto di bevande alcoliche negli stadi. Quanto ai numeri, la sola Heinenek (Paesi Bassi) nel 2022 ha registrato profitti netti di 2,6 miliardi di euro. AbinBev, la multinazionale belga che controlla i marchi Jupiler e Budweiser, nello stesso anno ha registrato ricavi per 57,7 miliardi di euro. Anche grazie al fattore football.