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    Home » Non categorizzato » L’eurozona esporta deflazione

    L’eurozona esporta deflazione

    [di Shahin Vallée] L’eurozona continua a puntare sulla svalutazione interna per incentivare le esportazioni: una strategia dannosa sia per l’Europa che per il resto del mondo.

    Redazione</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/eunewsit" target="_blank">eunewsit</a> di Redazione eunewsit
    13 Novembre 2015
    in Non categorizzato

    di Shahin Vallée  

    Le ultime previsioni economiche della Commissione europea mostrano una inquietante permanenza del recente accumulo di squilibri all’interno dell’Unione monetaria europea. Si prevede per la Germania un surplus delle partite correnti record, superiore all’8,5 per cento del PIL, per il 2015 e 2016, mentre tutti gli altri paesi dell’eurozona continueranno a girare in tondo inseguendo una quota maggiore della domanda estera attraverso svalutazioni interne. E questi squilibri sono ancora accompagnati da una narrazione fallace, che suggerisce che un surplus di partite correnti è la conseguenza di competitività e bontà del settore export.

    “Ripristinare la competitività attraverso riforme strutturali,” come dice il mantra, è stato in pratica un criterio non tanto orientato alla creazione di incrementi di produttività ma piuttosto pensato per perseguire la riduzione dei salari e dei prezzi per incentivare le esportazioni. Quando queste riduzioni nominali o reali dei salari erano difficili da ottenere politicamente, sono state sostituite da svalutazioni fiscali, che hanno spostato il peso fiscale dal lavoro verso le imposte indirette. È una politica che imita una svalutazione del tasso di cambio mediante la modifica dei prezzi relativi.

    In effetti, l’Europa ha sostituito le svalutazioni competitive del tasso di cambio degli anni 1970 e 1980 con la compressione dei salari e svalutazioni fiscali all’interno dell’eurozona. Il risultato è una corsa verso il basso che diffonde deflazione all’interno e all’esterno dell’eurozona. Persino un paese come la Finlandia, che si trova nella prime posizioni di ogni indicatore di competitività e di facilità di fare business, si è ora autoconvinta che il modo migliore per sollevarsi da una recessione lunga tre anni sia quello di ripristinare la competitività di prezzo attraverso una riduzione dei salari orari.

    L’effetto collettivo di questa politica pesa molto sulla domanda aggregata e alimenta le forze deflazionistiche. Essa mina inoltre l’obiettivo della Banca centrale europea di un’inflazione del 2 per cento attraverso bassi tassi d’interesse e acquisti di obbligazioni sovrane e altri beni.

    La procedura per gli squilibri macroeconomici della Commissione europea, che è stata introdotta durante la crisi per consentire un migliore coordinamento delle politiche economiche nazionali, finora è stata un fallimento. Si è dimostrata inefficace nell’evidenziare i disavanzi eccessivi e impotente nel intraprendere azione contro i surplus eccessivi. L’eurozona deve affrontare più seriamente i suoi squilibri interni ed esterni. Ciò non può avvenire attraverso il risanamento dei bilanci pubblici, le riforme strutturali e la svalutazioni dell’euro. Deve coinvolgere sia un’espansione fiscale nei paesi che possono permettersela maggiormente, sia un continuo aumento dei salari nell’eurozona per stimolare la domanda interna.

    L’incapacità di farlo non è più semplicemente un problema per la sola eurozona. È una questione di rilevanza globale. Il surplus di partite correnti dell’eurozona è ora del 3,7 per cento del PIL, il più grande del mondo in termini assoluti, e si prevede che rimanga a tali livelli elevati nel corso dei prossimi anni. Un possibile nuovo round di allentamento monetario da parte della BCE potrebbe farlo aumentare ulteriormente. Infatti, un deprezzamento dell’euro sarebbe espansivo per tutto il mondo solo se gli effetti sulla domanda interna e sulle condizioni finanziarie nell’eurozona fossero maggiori dell’effetto collaterale recessivo dovuto all’apprezzamento delle altre valute nel resto del mondo. Ma la sola politica monetaria, almeno nel breve termine, non sarà in grado di compensare le conseguenze nefaste sulla domanda aggregata dovute ai salari in calo e alla riduzione dell’indebitamento in corso.

    Il dibattito riguardo quanto il fallimento della politica economica dell’Europa sia diventato un problema globale non è ancora davvero iniziato. Le indicazioni del Fondo monetario internazionale e del G-20 rimangono troppo timide e le pressioni internazionali troppo limitate. Rispetto al picco della crisi, la questione degli squilibri mondiali è passata in secondo piano ed è diminuito il coordinamento internazionale in materia. L’FMI stima che il deficit delle partite correnti USA si sia ridotto di quasi la metà rispetto ai livelli del 2007. Il lento ribilanciamento della Cina ha portato l’avanzo dal 10 al 3 per cento del PIL. Nel frattempo, gli Stati Uniti e la Cina sembrano aver trovato quantomeno una pace monetaria transitoria, una pax chimericana: il governo degli Stati Uniti non si opporrà all’Asian Infrastructure Investment Bank che la Cina ha appena creato e all’entrata della Cina nel paniere di valute dell’FMI con previsioni speciali di diritti, mentre la Cina cercherà di mantenere una valuta relativamente stabile per evitare un altro giro di rapido apprezzamento del dollaro.

    Questo coordinamento delle politiche tra le due principali potenze economiche del mondo sembra molto più sviluppato ed efficace rispetto a ciò che sta accadendo all’interno del G-20 e sicuramente all’interno dell’eurozona. Ma ciononostante è improbabile che emerga una efficace critica contro la politica macroeconomica dell’eurozona al prossimo vertice G-20 in Turchia perché essa è politicamente e direttamente collegata alla governance disfunzionale dell’unione monetaria.

    In Europa non vi è stato un dibattito significativo riguardo alla politica macroeconomica fin dal discorso di Jackson Hole del presidente della BCE Mario Draghi dello scorso anno. La questione fiscale rimane in gran parte tabù e il sentire comune è che le riforme economiche e la svalutazione della moneta possono in qualche modo rilanciare e sostenere la ripresa. Sia le prove empiriche sia quelle teoriche suggeriscono esattamente il contrario.

    L’eurozona e i suoi Stati membri non possono continuare a comportarsi come se fossero una piccola economia aperta. È un errore per il G-20 lasciare che l’eurozona continui a comportarsi egoisticamente minando una ripresa globale sempre più fragile.

    Pubblicato sul Wall Street Journal il 5 novembre 2015. Traduzione a cura di vocidallestero.it. 

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