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    Home » Non categorizzato » Il debito pubblico nell’eurozona: un problema politico, non finanziario

    Il debito pubblico nell’eurozona: un problema politico, non finanziario

    [di Thomas Fazi] Il debito pubblico nella zona euro è uno strumento politico-disciplinare usato per costringere i governi ad attuare politiche socialmente dannose.

    Redazione</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/eunewsit" target="_blank">eunewsit</a> di Redazione eunewsit
    7 Aprile 2017
    in Non categorizzato

    di Thomas Fazi

    La questione del debito pubblico è tornata di attualità in Europa, in particolare in Italia e in Grecia. Il ministro Padoan di recente è tornato sul tema. «Bruxelles – ha dichiarato Padoan – ci ricorda che l’Italia ha un debito troppo alto e questo lo sappiamo tutti, che avrebbe cominciato a scendere da quest’anno che non lo ha fatto perché purtroppo siamo stati in deflazione nel 2016 e le condizioni di mercato non ci hanno permesso di completare il programma di privatizzazioni. Tale programma quest’anno prenderà di nuovo quota». A tal fine, il ministro ha annunciato la cessione di ulteriori quote di Poste Italiane e Ferrovie dello Stato, una misura che dovrebbe portare nelle casse dello Stato circa di 7-8 miliardi, a fronte di un debito che ammonta a… 2.200 miliardi. Al di là della proposta di Padoan – sulla cui avvedutezza e sulle cui reali finalità è lecito nutrire dei dubbi – come dovremmo interpretare questo rientro di scena della vexata quaestio del debito? Il debito pubblico rappresenta veramente un problema, dal punto di vista economico-finanziario, per i paesi della zona euro?

    Innanzitutto, una premessa: è ancora diffusa l’idea che la causa principale della “crisi dell’euro” – dipanatasi tra il 2009 e il 2012 – sia da rintracciarsi nell’eccessivo livello di debito dei paesi della periferia (da cui il termine “crisi del debito”). In realtà, come non ci stancheremo mai di ricordare, prima della crisi finanziaria del 2007-9 alcuni dei paesi periferici che da quella crisi sono stati colpiti più duramente – Spagna, Irlanda, Portogallo – registravano tra i livelli di deficit e/o di debito più bassi di tutta Europa. Gli unici due paesi periferici che prima che della crisi registravano un livello di debito relativamente “alto” (almeno dal punto di vista dei criteri del tutto arbitrari del Trattato di Maastricht) erano l’Italia e la Grecia. È solo con lo scoppio della crisi finanziaria che i livelli di deficit e di debito schizzano alle stelle, in tutta l’eurozona ma in particolar modo nei paesi della periferia.

    Nel complesso, a distanza di due anni dalla crisi del 2008, il rapporto deficit-PIL della zona euro era passato dallo 0,7 al 6 per cento; mentre il rapporto debito-PIL era passato dal 66 all’85 per cento. In quasi tutti i paesi della periferia la crisi è stata causata da un accumulo eccessivo di debito privato (successivamente socializzato), non di debito pubblico. Fa eccezione solo la Grecia. Questo è da imputarsi principalmente all’imponente aumento dei flussi finanziari transfrontalieri a seguito dell’introduzione dell’euro (che a sua volta ha determinato l’esplosione degli squilibri di partite correnti intra-euro), come ha riconosciuto lo stesso vicepresidente della BCE Vítor Constâncio. In definitiva, l’aumento del debito – prima privato e poi pubblico – può essere ricondotto all’architettura disfunzionale dell’unione monetaria.

    Detto questo, nella misura in cui i paesi della periferia oggi registrano livelli di debito pubblico relativamente alti, almeno rispetto ai livelli pre-crisi, questo rappresenta un problema? Dal punto di vista tecnico no. Come abbiamo visto nell’estate del 2012, dopo tre anni di propaganda martellante sulla necessità per i paesi ad alto debito di adottare misure di austerità al fine di ridurre il debito e “rassicurare i mercati”, è bastata una semplice frase di Draghi – «la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’euro» – per porre fine alla “crisi del debito” da un giorno all’altro. Il messaggio di Draghi ai mercati finanziari era chiaro: se avessero continuato a chiedere tassi eccessivi, la BCE sarebbe intervenuta per comprare i titoli a un tasso calmierato. Pur non trasformando la BCE in una “normale” prestatrice di ultima istanza – tutt’altro – l’intervento di Draghi dimostrò con chiarezza due cose: (i) che il debito pubblico non è mai un problema fintanto che è garantito dalla banca centrale che emette la valuta in cui è denominato il debito; e (ii) che i tassi di interesse sono fissati dalla banca centrale, non dai mercati.

    Fu anche la dimostrazione indiretta del fatto che, nella misura in cui l’Europa ha sperimentato una “crisi del debito” tra il 2009 e il 2012, questo è da imputarsi unicamente alla perversa architettura dell’eurozona – in cui i governi sono costretti a indebitarsi in quella che è effettivamente è una valuta estera, sarebbe a dire una valuta che non controllano – non al debito in sé. Infine, fu la dimostrazione che le misure “dolorose ma necessarie” imposte ai paesi dell’eurozona in seguito alla crisi non avevano nulla a che vedere con la riduzione del debito – che anzi è cresciuto in modo esponenziale proprio a causa di essere, a causa del crollo del PIL – ma riflettevano piuttosto considerazioni di carattere politico ed ideologico, finalizzate allo smantellamento dello stato sociale e delle tutele del lavoro.

    Ha senso dunque, a distanza di cinque anni dal fatidico discorso di Draghi, parlare del “problema del debito”? Dal punto di vista finanziario, no: grazie alla garanzia più o meno esplicita della BCE e al programma di quantitative easing, i tassi di interesse sui titoli pubblici decennali sono relativamente bassi in tutta la zona euro, nonostante un leggero rialzo negli ultimi mesi. Tuttavia, c’è una questione politica di fondo che continua a rimanere inevasa: la capacità dei paesi della zona euro di rimborsare il debito pubblico dipende essenzialmente dalla “buona volontà” di una banca centrale che non è soggetta ad alcuna forma di accountability e di controllo democratico. Oggi, dunque, il debito sembra essere sotto controllo; ma in qualunque momento la BCE potrebbe decidere di mettere fine al programma di quantitative easing, di ridurre il volume di acquisti di un determinato paese, facendo dunque salire i tassi di interesse, o addirittura di escludere un paese dal programma (come fa oggi con la Grecia), gettandolo nuovamente nelle fauci dei mercati finanziari.

    Si tratta di una situazione insostenibile da un punto di vista democratico. E senza pari nel mondo. Nei paesi “normali” – sarebbe a dire, nei paesi avanzati che controllano la loro valuta – esiste una relazione operativa (se non politica) tra la banca centrale e il governo, in cui la banca centrale tende a supportare le decisioni di politica fiscale assunte dal governo. In questi paesi, la questione della sostenibilità o meno del debito non si pone neanche. Il Giappone è forse l’esempio più lampante: nonostante il paese abbia il rapporto debito-PIL più alto al mondo, pari al 250 per cento, negli ultimi anni la banca centrale ha effettivamente monetizzato una fetta enorme del debito – più del 40 per cento del debito pubblico giapponese è posseduto dalla Bank of Japan – e di recente ha annunciato che manterrà i tassi di interesse sui titoli di Stato nipponici a zero fino a nuova comunicazione. E indovinate cosa? Il paese è vicino alla piena occupazione. Alla faccia del problema del debito pubblico.

    Questo è esattamente il contrario di ciò che accade nella zona euro, dove la BCE in sostanza dice ai governi: vi aiuteremo a tenere giù i tassi di interesse, ma solo se accettate di implementare misure di austerità e rinunciate a qualunque forma di politica fiscale espansiva. Questo va al cuore del problema: il debito pubblico nella zona euro è uno strumento politico-disciplinare usato per costringere i governi ad attuare politiche socialmente dannose (e per far accettare tali politiche ai cittadini, presentandole come inevitabili). Ne abbiamo avuta la prova in Italia, nel 2011, quando la BCE fece salire i tassi di interesse per costringere un governo democraticamente eletto a dimettersi. E, naturalmente, ne abbiamo avuta una dimostrazione ancora più esplicita in Grecia, durante la famigerata estate del 2015, quando la BCE paralizzò il sistema bancario greco.

    La Grecia esemplifica l’uso politico del debito nell’eurozona: purché la troika eroghi l’ultima tranche di “aiuti” – come è probabile che farà – il paese non dovrebbe avere troppi problemi a onorare le scadenze dei pagamenti nei prossimi anni (per quanto beneficerebbe naturalmente di tassi di interesse più bassi, come qualunque altro paese). Anche per la Grecia, dunque, il debito rappresenta un problema politico ancor prima che economico e finanziario: il paese è a tutti gli effetti una colonia del debito, la cui sopravvivenza finanziaria dipende interamente dalle decisioni prese dai suoi creditori. Questo è il motivo per cui l’Europa è così restia a prendere seriamente in considerazione un alleggerimento del debito greco: il debito è la catena che tiene la Grecia legata al palo. Lo stesso discorso vale per tutti i paesi dell’eurozona.

    In definitiva, il problema dell’Europa non è il debito pubblico ma la cornice istituzionale che sta intorno a quel debito. Una cornice istituzionale che appare sempre più irriformabile.

    Rielaborazione di un intervento tenuto in occasione della conferenza “How to deal with Public Debt? – Lessons Learned & Policies Ahead”, organizzata il 7 marzo 2015 dal gruppo GUE/NGL al Parlamento europeo. 

    Tags: bcebruxellescommissione europeaeuropaoneuroparlamento europeoueunione europea

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