Bruxelles – “Siamo alla fine, il prossimo passo è la distruzione totale: è necessario che la comunità internazionale prenda una posizione forte adesso perché non c’è più tempo”. Martina Marchiò, coordinatrice medica di Medici Senza Frontiere è a Gaza City. Tornata nella Striscia dopo l’esperienza dell’anno scorso nella zona centrale, Martina trova il tempo di concedermi un’intervista con cui vorrei che mi ‘portasse’ con i suoi occhi ed emozioni dentro Gaza, visto che la stampa non può farlo. La chiamo un sabato di inizio giugno, pochi giorni prima che Israele chiudesse la connessione internet e desse avvio all’escalation contro l’Iran spostando il baricentro dell’attenzione mediatica di tutto il mondo da Gaza a Teheran. È pomeriggio. Da me, a Bruxelles, c’è il sole e fuori dalla finestra vedo le persone che si affaccendano a portare la spesa in casa, i figli a fare sport, a prendere la bici per una gita. Qualche bimbo gioca a pallone per la strada con l’unica accortezza di far passare le macchine, quando ce ne sono. “Io ora sono a Gaza City e il quartiere in cui viviamo non è lontano dallo Shifa Hospital e dal mare”, mi dice Martina appena le chiedo dove si trovi precisamente. “Di fatto viviamo in uno di quei quartieri che erano tra i più belli e ricchi della città. Chiaramente non è più così: vediamo solo grande distruzione e sovrappopolamento”.
Eunews: Cosa vedi attorno a te?
Marchiò: “È uno scenario surreale, apocalittico. La maggior parte degli edifici è a terra, distrutta. Altri sono ancora in piedi, ma bruciati o crivellati dai colpi di proiettile. Per la strada ormai ci sono tende dappertutto mentre all’inizio erano molte meno: purtroppo nelle ultime tre settimane la situazione è persino peggiorata e visto che ormai l’81 per cento della Striscia è occupata militarmente – o sotto evacuazione – le persone stanno vivendo in uno spazio minuscolo. I servizi scarseggiano, nei pochi edifici in piedi sono arrivate tantissime famiglie che vengono dal nord, Jabalia, Beit Lahia, Beit Hanoun, e che si sono spostate verso Gaza City per la violenza: uno sfollamento forzato”.
E.: Quali sono i suoni e i rumori che senti?
M.: “Sento gli attacchi, perché sono sempre vicini, a 1-2 chilometri o anche meno perché, appunto, parliamo ormai di distanze minuscole. E c’è sempre il rumore dei droni… Ti sembra di averli anche in camera da letto e a volte e fai proprio fatica a disconnettere. Ora veniamo da due giornate molto tese. Sembra una presa in giro, ma gli attacchi sono sempre più forti di venerdì o nei giorni di festività.. E poi ci sono sempre i barconi lungo la costa che tirano cannonate o colpi verso la spiaggia. Sembra sempre che ci sia il temporale, ma non è così”.

E.: Com’è il posto in cui vivete?
M.: “Noi siamo in un edificio su tre piani, interamente per MSF. E’ carino, in muratura. E’ una casa che è stata parzialmente colpita, ma poi rimessa su. Usiamo la casa e l’ufficio, che sono nello stesso edificio, e qui ci vive anche la proprietaria con la sua famiglia, i suoi figli e il fratello”.
E.: Cosa mangiate?
M.: “Per il cibo ci vuole flessibilità. Ci sono giorni più sfortunati in cui ti mangi i noodles pronti, quelli che si scaldano con l’acqua bollente, oppure cose in scatola che abbiamo in stock dal cessate il fuoco, fagioli, ceci, mais. Per chi non è vegetariano magari si trova qualche scatola di tonno. Puoi trovare ancora del riso, se sei fortunata puoi trovare della farina per il pane, anche se costa 15 dollari al chilo. Si può trovare ancora la pasta, anche se di qualità scadente, e qualche verdura, soprattutto pomodori, cetrioli, melanzane e zucchine. Lungo la spiaggia si può trovare pesce, ma a prezzi esorbitanti. Carne, uova e frutta non ce ne sono. Compriamo un po’ di verdura al mercato, anche se raramente per non alimentare l’inflazione. Noi siamo fortunati, non tutti possono permettersi questi prezzi alle stelle: un chilo di pomodori costa 10 euro. C’è qualche famiglia fortunata, in cui qualcuno lavora e può garantire almeno un pasto al giorno. E ci sono famiglie aiutate dal supporto esterno, che è molto utile per riuscire a ricevere un sostentamento. I pagamenti online infatti funzionano ancora e chi riceve donazioni digitali può spenderle al mercato. Quando entri a Gaza da fuori puoi permetterti qualcosina – il tetto massimo di cibo che si può portare è di 3 chili a persona e 3 chili li consumi subito. Però tra quello, gli stock e quello che riusciamo a comprare si tira avanti”.
E.: Riuscite ad avere accesso ad acqua pulita?
M.: “In generale, c’è acqua di mare che viene filtrata e desalinizzata parzialmente. Gaza City prima della guerra era uno dei posti più sviluppati della Striscia a differenza di Rafah. Quindi, ad esempio, in questa casa l’acqua è abbastanza pulita e non salata. Non la puoi bere, ma ti puoi lavare. L’anno scorso invece l’acqua a Rafah, come ora nella zona centrale, ti lasciava il sale addosso. Noi beviamo acqua che viene filtrata. Per l’igiene, i prodotti che usiamo vengono da fuori: mi era stato detto di portarmi il bagno schiuma e così ho fatto. Per la pulizia dei vestiti e per le mani usiamo il sapone che abbiamo ancora in stock”.
E.: Avete ancora elettricità ed internet, tanto che questa telefonata la stiamo facendo via whatsapp. Ci sono restrizioni?
M.: “L’elettricità va a pannelli solari, per chi li ha. Poi ovviamente ci sono le realtà fortunate che hanno i generatori per i quali serve il carburante. Con il cessate il fuoco, le Nazioni Unite ne hanno fatto entrare moltissimo che ancora oggi viene utilizzato. Ma purtroppo tanto di quel carburante è in una zona rossa, completamente inaccessibile e, dunque, non è per niente banale recuperarlo e portarlo dove serve. L’anno scorso, con la chiusura del confine, il carburante non entrava e anche gli ospedali e le cliniche, oltre alla desalinizzazione e distribuzione di acqua pulita, ne subivano l’impatto. L’ospedale Al Aqsa nel centro di Deir al-Balah è rimasto in blackout per cinque ore, con lo staff che ventilava a mano i pazienti in rianimazione e i chirurghi che operavano con una torcia sulla testa. Non è normale. Per quanto riguarda la rete internet, dipende da dove sei. Di solito la linea regge, la usiamo anche per parlare fra colleghi, ma quando ci sono gli attacchi se ne va“.

E.: L’area in cui risiedi è più sicura di altre? C’è una qualche forma di protezione per gli operatori umanitari?
M.: “La zona sicura non esiste, non c’è una zona umanitaria. Ieri sera hanno colpito a 70 metri dalla nostra clinica, la settimana scorsa a 150 metri da noi e a 50 metri da un’altra clinica. Mi viene da dire che per noi la protezione è data dal fatto che siamo espatriati – mentre abbiamo visto abbastanza di quello che succede ai palestinesi – perché penso che Israele preferisca evitare incidenti diplomatici. Anche se ci sono state vittime tra gli operatori internazionali, non possiamo nascondercelo. Qui le regole della legge internazionale umanitaria non vengono rispettate: se c’è un bersaglio, Israele va sul bersaglio, non importa quello che c’è intorno. Qualche volta è capitato che le autorità te lo dicessero prima, cioè che arrivasse la telefonata, non solo alle organizzazioni internazionali ma anche alla popolazione. Telefonano e dicono che devono colpire vicino a dove sei tu e ti dicono di rimanere in casa. Ma questo può capitare come no: a volte colpiscono e non dicono niente. Come ieri sera che hanno colpito a 70 metri dalla clinica e dal reparto e avevamo lì lo staff del turno di notte. L’esplosione è stata fortissima, a 70 metri, ed è avvenuta senza nessun avvertimento. Le persone del nostro staff si sono ritrovate con i detriti che gli volavano addosso. Altre volte arrivano i messaggi di evacuazione alle persone. Dunque gli abitanti di un quartiere o un’area sanno che devono andarsene. Poi, per andare dove è un altro discorso: in tanti non se ne vanno più perché non sanno dove andare. Ovviamente, quando l’attacco avviene non solo via cielo ma anche via terra, come è successo nel campo di Jabalia che è stato praticamente quasi spazzato via, la gente per forza se ne va”.
E.: Cosa avete fatto nelle due situazioni di esplosioni vicine alla clinica e alla casa?
M.: “L’attacco di ieri è avvenuto alle 4:40 di notte: il personale ha preso i pazienti e sono corsi nella stanza che viene considerata come più sicura. Non è una vera e propria Safe Room, ma è la stanza più sicura dell’edificio. Visto che i bunker non esistono, di solito si sceglie una stanza per la sicurezza: generalmente, una stanza che sia a piano terra e abbia i muri portanti e che non sia proprio sulla strada. Così, se collassano i piani superiori, ci sono dei muri portanti e se arrivano frammenti, pietre o detriti, sei protetto. Poi si lascia la finestra aperta così che non esplodano i vetri. Dunque, quando c’è stato l’attacco si sono spostati lì e il mio collega che si occupa della sicurezza ha chiamato le autorità israeliane per capire cosa stesse succedendo – perché ovviamente Israele era informato che noi da una settimana abbiamo attività 24 ore al giorno. La settimana prima, invece, quando hanno colpito a un centinaio di metri da dove viviamo noi, io mi trovavo in terrazza a stendere il bucato. Sono entrata immediatamente in casa, ho recuperato il mio zainetto, mi sono messa a correre giù per le scale. Anche in casa c’è una stanza che viene considerata più sicura. Il tempo di arrivarci e c’è stata un’altra esplosione, più forte. In quei casi senti lo stabile tremare…il colpo d’aria è molto potente e sembra uno schiaffo all’edificio. Siamo rimasti lì 24 ore, passandoci la notte. Anche in quel caso abbiamo verificato le condizioni di sicurezza con le autorità israeliane e a un certo punto ci hanno detto che potevamo uscire e tornare alle attività. Ma non ci hanno informati prima dell’esplosione, è stato dopo la nostra telefonata che ci hanno detto che fare”.
E.: Facciamo un passo indietro, come sei entrata a Gaza?
M.: “Io sono entrata con la rotazione del 22 Aprile. Da Amman abbiamo preso il bus fino al confine con Israele. Siamo entrati da Kissoufim, su Deir al Balah. Siamo partiti alle 6 del mattino e arrivati alle 17. Ci sono stop e controlli. Nel passaggio da Giordania a Israele ti scannerizzano i bagagli, te li fanno aprire se vedono cose strane, ti fanno domande dettagliate, anche molto incalzanti, per vedere se stai mentendo. Di solito ci vuole un’ora a fare questo tipo di controllo. Nel mio caso sono state quattro perché io e altri tre colleghi avevamo delle cose che secondo loro non si potevano portare. Un collega aveva un cellulare in più, da dare al suo ufficio: banalmente lo aveva messo nel bagaglio da stiva e questo è stato visto come gesto sospetto. Io e altri due colleghi invece avevamo dei rubinetti per le nostre guest house, dove viviamo. Ci hanno contestato la finalità perché, essendo fatti di metallo, hanno sospettato che avessero scopi militari. Siamo rimasti quattro ore bloccati, senza sapere se ci avrebbero rimandato in Giordania o ammesso. Poi, anche grazie alle spiegazioni fornite da MSF, ci hanno fatto proseguire, ma sequestrando i rubinetti”.
E.: Dunque chi e cosa entra a Gaza è sempre Israele a deciderlo…
M.: “Sanno tutto e sono loro che decidono se la rotazione può avvenire oppure no. La sera prima della rotazione validano la lista di chi deve entrare a Gaza. Il 22 aprile, ad esempio, alcune persone non erano state validate e da Amman sono tornate nei loro Paesi. La rotazione viene confermata la sera prima e il mattino stesso danno la cosiddetta ‘green light’ per andare. La rotazione dura un giorno: in quel giorno c’è chi entra e chi esce. È tutto controllato e conteggiato perché c’è un tetto massimo di espatriati che possono stare dentro la Striscia. Dunque, noi siamo entrati, mentre altri sono usciti e anche il viaggio di uscita è lungo perché verificano dettagliatamente soprattutto ciò che vuoi far uscire dalla Striscia”.

Martina mi spiega che, nella Striscia, Medici Senza Frontiere ha un team coordinato dai centri di Amman e Gerusalemme e diviso in due zone: quella di Gaza Nord, dove si trova lei ora, e quella di Gaza Centro, che copre Deir al-Balah e Khan Younis, dove è stata l’anno scorso. “In entrambi i progetti, ci sono attività a livello ambulatoriale che in questo momento sono sovraffollate perché in ogni ambulatorio ci sono oltre 450 visite al giorno, in alcuni ambulatori si toccano anche 600 o 700 al giorno. Sono pazienti che arrivano per la salute primaria, per la salute in gravidanza, per malnutrizione. Nelle ultime due settimane qui a Gaza City c’è stato un aumento del 32 per cento dei casi di malnutrizione registrato nelle nostre cliniche. Poi ci sono pazienti che arrivano per la cura delle ferite, per la fisioterapia e per la salute mentale. Diamo anche supporto in alcuni ospedali del Ministero della Salute, sia a livello chirurgico di traumi che a livello materno-infantile, quindi supportando i reparti di maternità, i reparti di neonatologia, neonatologia intensiva e anche pediatria. E poi diamo supporto ad alcuni pronto soccorso, sempre del Ministero della Salute. Abbiamo anche due ospedali da campo nella zona centrale, che fungono da estensione degli ospedali del Ministero della Salute, per aumentare le sale operatorie e i posti letto”.
E.: Quali sono le distanze che coprite per andare al lavoro e come vi spostate?
M.: “Ci spostiamo in auto: si tratta di 10 minuti per andare al reparto e alla clinica. Lo spazio nel nord di Gaza ormai è minuscolo: stiamo parlando di 5 chilometri per andare al nord, 4 chilometri per andare ad est, a ovest c’è il mare e a sud ormai siamo al limite. L’altro ambulatorio invece è a 3 chilometri e mezzo, purtroppo al limite della zona rossa. In generale, il tempo di spostamento aumenta molto per via delle tende, dei carrettini trainati da asinelli, delle persone in ogni angolo…diventa impegnativo”.
E.: I vostri spostamenti sono sempre comunicati e noti alle parti?
M.: “Tutti conoscono le nostre coordinate. Ogni volta che metti su un ufficio o che vai ad abitare in un posto o metti su un ospedale, una clinica, mandi le coordinate e aspetti che ti rispondano di aver ricevuto l’informazione. A volte rispondono in ritardo, a volte nemmeno quello. Come MSF non facciamo il recupero dei feriti, lo fa la Croce Rossa Palestinese. Ma i nostri spostamenti, se sono in zone rosse, sono chiaramente coordinati. Ciò significa che Israele deve sapere che stai andando in un posto, devi dirglielo 48 ore prima, devi dare la lista delle persone che sono nelle auto. Se, invece, sono in una zona non rossa andiamo ‘normalmente’… Gli spostamenti in macchina sono un rischio, ci ritroviamo sempre a sperare che nel tragitto non ci sia un bersaglio interessante”.

E.: Qual è la situazione degli ospedali?
M.: “Lavorano parzialmente perché la distruzione è importante. Non c’è un ospedale che lavori alla stessa capacità in termini di letti, risorse umane, medicinali e strumentazione con cui lavorava prima. Il problema è che ricevono il quadruplo dei pazienti. Prima del 7 ottobre 2023 a Gaza c’erano degli ospedali di eccellenza con staff di eccellenza, con specialità di alto livello. Uno di questi era Shifa, policlinico universitario, uno degli ospedali più brillanti. L’ospedale di Shifa – con cui noi collaboriamo perché abbiamo aperto questa settimana un piccolo reparto annesso – è stato colpito tre volte. Arrivando a Shifa tu vedi alcuni degli edifici principali completamente crollati, altri parzialmente crollati, e poi vedi una nuova parte che il Ministero della Salute ha iniziato a ricostruire, anche grazie al supporto di alcune agenzie delle Nazioni Unite o di organizzazioni umanitarie. Hanno rimesso su una parte con 120 posti letto e 45 di pronto soccorso. Si nota questo stacco di paesaggio, tra i blocchi distrutti e la parte rimessa in piedi, e poi a pochi passi c’è una fossa comune che contiene oltre 300 corpi, non li hanno neanche potuti contare. L’ospedale ora si focalizza sui traumi. Poi magari c’è un altro ospedale che prima della guerra faceva altro e ora si focalizza sulla maternità. Gli ospedali si sono un po’ spartiti i servizi per cercare di organizzare il circuito di cura”.
E.: Come lavora MSF?
M.: “MSF lavora sia con un team di espatriati sia con un team di personale palestinese e si lavora sia in strutture al 100% di MSF che in strutture in collaborazione col Ministero della Salute. Ci è capitato di lavorare in vere e proprie strutture di salute così come di mettere su degli ospedali da campo che sono fatti principalmente di tende oppure di costruzioni semipermanenti. Addirittura ci è capitato di lavorare in un’ex fabbrica di polli che abbiamo trasformato in ambulatorio. Oppure di riadattare strutture che prima della guerra usavamo come uffici o come abitazioni MSF e trasformarli in strutture di salute. Ci vuole tanta creatività e inventiva per avere rapidità di risposta”.
E.: Quale materiale siete riusciti a portare dentro?
M.: “Abbiamo potuto portare dentro molto materiale medico, non solo dei medicinali ma anche per sale operatorie e di chirurgia. Non tutto il materiale viene accettato perché Israele decide cosa può entrare e cosa no e ci sono sempre quei materiali che vengono considerati con doppio utilizzo. Ad esempio, una carrozzella non può entrare, una stampella o un ventilatore non possono entrare perché tutto quello che ha parti di metallo viene fermato. Ovviamente anche il Ministero della Salute ha i suoi canali e stock e sia per quanto riguarda i medicinali che per quanto riguarda il materiale medico possiamo avere un aiuto”.
E.: Quali sono state le procedure con il Ministero della Salute Palestinese?
M.: “Ogni volta che scegli di mettere su un servizio, il Ministero della Salute palestinese deve validare l’attività e ci sono delle procedure da seguire. Come in qualsiasi altro Paese abbiamo sempre un accordo firmato col Ministero della Salute per convenire attività e modalità. Se ci servono dei supporti da parte del Ministero della Salute che noi non abbiamo è possibile che ce li diano e viceversa. Capita che le ONG o le agenzie ONU possano supportare il Ministero. Adesso in un ospedale mancavano dei letti e alcune agenzie delle Nazioni Unite sono riuscite a fornirglieli”.
E.: Voi operatori sanitari avete una qualche forma di routine?
M.: “No, dipende molto dagli attacchi, dagli ordini di evacuazione e dai movimenti della popolazione. Si lavora sempre con piani a-b-c e vedendo cosa succede durante la giornata. Ma di fatto ci si abitua a non averne di piani: vai a dormire la sera che non sai se starai nel tuo letto o se devi correre al piano di sotto. Ti svegli il mattino che non sai come andrà la giornata. I colleghi, la sera, quando ci salutano e ci dicono: ‘Ci vediamo domani, forse, se Dio vuole’. Non si sa bene cosa potrà accadere nella notte”.
E.: Puoi raccontare qualcosa dei tuoi colleghi palestinesi?
M.: “Tanti di loro mi colpiscono molto per la loro forza e resilienza, perché continuano a spingere nonostante siano loro stessi delle vittime. Questi venti mesi iniziano a farsi sentire per tutti. Una mia collega è rimasta qui a Gaza City fin dal 7 ottobre: ha scelto di restare anche in un momento in cui la maggior parte delle persone se ne andava e anche quando successivamente il nord è rimasto completamente tagliato fuori dalla zona centro-sud dove ero io l’anno scorso. Lei ha visto delle cose inimmaginabili. Ha letteralmente raccolto i pezzi dei corpi di tanti dei suoi familiari, non ha mangiato per 15 giorni. È sopravvissuta con i suoi 4 figli, la sorella è morta e lei ha preso in carico gli altri 4 bambini. Ora, quando siamo insieme, mi dice spesso che le sembra un incubo, che pensa che si sveglierà e ritornerà alla sua vita di prima, una vita fatta di bellezza, di giorni pieni, di famiglia. Lei quindi non si dà pace, mi ha mostrato dove era casa sua – in un palazzo completamente collassato, in un quartiere che ai tempi era molto, molto bello. A volte mi fa vedere le foto del suo passato e mi dice che fatica a riconoscere quella vita come sua. Nonostante tutto, nonostante le perdite enormi che ha avuto, i traumi che mai se ne andranno e che non possiamo neanche immaginare, lei ogni mattina viene al lavoro, ogni mattina è in prima linea e va avanti”.

E.: Come fate per il materiale sanitario?
M.: “Da tre mesi il confine è chiuso, scarseggiano alcuni antibiotici e antidolorifici, anche le garze. Ci troviamo a dover prendere delle decisioni difficili. Anche se ci sarebbe bisogno di aprire 10 ambulatori, con lo stock che abbiamo magari ne apriamo 5. Ci vorrebbero oltre 600 camion al giorno per rispondere ai bisogni della popolazione, ne sono entrati una manciata. Stiamo centellinando tutto il possibile per non terminare lo stock e trovarci paralizzati. Tutte le organizzazioni si trovano un po’ sulla stessa barca, e a volte condividiamo gli stock”.
E.: Di che tipo di scelte difficili parli?
M.: “Bisogna scegliere chi salvare nel momento di afflusso massivo di feriti in ospedale, sia a livello di stabilizzazione ma anche a livello di chi si porta in sala operatoria. Questo vale anche per la malnutrizione, in un momento in cui tutti hanno fame e ti chiedono cibo. L’altro giorno una signora mi ha chiesto un sacchetto di cibo terapeutico. Mi diceva ‘dammelo per favore, solo questa volta, solo per questa volta’. È una donna in gravidanza e io le ho detto non potevo darle nulla. Non era malnutrita e io dovevo tenere quei sacchetti per i pazienti malnutriti, ne ho a malapena per loro. Se n’è andata via piangendo. È molto dura. È un colpo, è un bel colpo veder piangere le persone anziane, i bambini, le donne, per la fame”.
E.: Questo inverno abbiamo visto morire di freddo dei neonati. Con le temperature più calde cosa vi aspettate?
M.: “Adesso fa caldo e, anche se la notte rinfresca, di giorno si arriva a 28-30 gradi. Temiamo ciò che abbiamo visto l’anno scorso. Ci sono in media 20 persone in una tenda e le condizioni igienico sanitarie sono quelle che sono. Arriva il caldo, i colpi calore, la disidratazione, e c’è meno acqua pulita. Temiamo malattie infettive e gastrointestinali. In più manca l’ultimo round di vaccinazioni per la polio, malattia legata alle condizioni igieniche deteriorate, che non è mai stato fatto entrare. E per i bebè…è chiaro che morire di freddo o di caldo è comunque una morte atroce“.
E.: Ci sono urgenze più forti di altre in questo momento specifico?
M.: “La maggior parte dei pazienti ormai arriva chiedendo da mangiare e avere un pasto al giorno è il problema principale. Tante persone non riescono neanche più a vedersi dare un pasto al giorno, ed è preoccupante. A me ha colpito vedere sia anziani che bambini che adulti implorare e piangere perché hanno fame. Lì, capisci che hai toccato il fondo”.
E.: A quali numeri vi attenete e quali ritenete attendibili?
M.: “Noi facciamo riferimento sempre ai numeri dati dal Ministero della Salute e poi ovviamente anche dai numeri dati dall’Onu e dalla WHO. Sono i più affidabili. Se parliamo dei morti, i numeri sono parziali perché qui a Gaza City è pieno di edifici che sono completamente collassati e sui pezzi di muro rotti le persone hanno scritto i nomi di chi è ancora lì sotto. Ci sono tantissimi edifici collassati da cui nessuno è riuscito a tirare fuori i corpi. Poi ci sono quelle zone completamente inaccessibili, dove neanche i soccorritori possono arrivare perché vengono colpiti. Quindi le persone spesso rimangono sotto le macerie per mesi e i numeri non possono che essere parziali”.
E.: Puoi dare corpo a qualcuno di questi ‘numeri’?
M.: “A me hanno colpito tanti bambini amputati, non avevo mai visto tanti bambini amputati come nella Striscia di Gaza. Secondo i dati delle U.N. una media di 10 bambini al giorno ha perso gli arti a Gaza nel 2024. Sono dati folli e inquietanti. Mi ricordo una bambina, arrivata nel nostro ambulatorio per accompagnare la sorellina che non aveva più una gamba. Mentre la sorellina faceva la medicazione, lei era con uno psicoterapeuta a giocare con la plastilina. A un certo punto c’è stata un’esplosione, molto forte, e lei si è immobilizzata, è rimasta completamente bloccata. In seguito lo psicologo mi ha detto che quella bambina aveva perso metà della famiglia una settimana prima proprio in un’esplosione. Quindi era rimasta soltanto lei con la sorellina e la mamma, mentre i fratellini e il papà non c’erano più. Vedere una bambina così piccola, di 8-9 anni, completamente terrorizzata – tremava, aveva lo sguardo vuoto – è qualcosa che fa male. Così come vedere la sorellina che non ha più la gamba: è sopravvissuta, ma è una bambina rimasta disabile in un posto in cui non ci sono più le strade, non ci sono i servizi e neanche le carrozzine vengono fatte entrare”.
E.: Percepisci una qualche idea di futuro, magari anche solo a brevissimo termine?
M.: “Qui nessuna persona parla di futuro, ma di sopravvivere fino a domani. Questa è l’idea di futuro, un futuro immediato. Via mare non è possibile uscire, perché anche le barchette di pescatori che pescano nel range di chilometri prestabilito vengono affondate senza motivo, sin dall’anno scorso. Il mare, il cielo e la terra sono controllati da Israele, è una zona completamente occupata, com’era già prima del 7 ottobre: la situazione è rimasta la stessa. Non c’è modo di uscire: è una prigione a cielo aperto“.
E.: Come ti senti da operatrice sanitaria europea a Gaza?
M.: “Mi sento di essere dove voglio essere, dove posso fare nel mio piccolo qualcosa. Ovviamente è una goccia nell’oceano, ma ci credo come tanti altri. In un momento in cui un popolo viene sterminato e annientato completamente, penso sia importante avere gli occhi delle organizzazioni umanitarie qui. Non solo per la parte di sostegno medico-sanitario, ma anche per quella di testimonianza e per far vedere al mondo quello che succede, dato che i giornalisti non possono entrare. Quello che arriva al mondo lo si deve al popolo palestinese, ai giornalisti e alla press palestinese, e agli operatori umanitari che sono dentro“.
E.: Hai paura?
M.: “La paura ce l’ho, ma credo che sia quella che un po’ ti salva perché ti fa rimanere lucida rispetto a dove sei. Non averla vorrebbe dire essere un po’ sprovveduti. È chiaro che ho paura, però si accetta il rischio. Ho pensato bene se tornare qua una seconda volta, poi ho deciso: una scelta non facile”.
E.: Quali cambiamenti hai visto dall’anno scorso?
M.: “Adesso siamo proprio alla fine della corsa. Questo è ciò che è cambiato: siamo alla fine e il prossimo passo è la distruzione totale. Non è rimasto più granché. Per questo c’è bisogno che la comunità internazionale prenda una posizione adesso. Non c’è più tempo. Il livello di distruzione e di sfollamento forzato della popolazione stanno toccando punte mai toccate prima. Questo piano di annientamento totale sta arrivando alle ultime battute. È tardi e venti mesi dopo diciamo che siamo a un passo dalla fine. Si deve arrivare a un cessate il fuoco adesso e a una riapertura del confine adesso, in modo che gli aiuti entrino in maniera massiccia. E visto che le negoziazioni di cessate il fuoco continuano a fallire, l’unica possibilità che vedo è quella di avere una forte posizione internazionale”.
Il turno dei 2 mesi di permanenza a Gaza per Martina sta per scadere e tra pochi giorni rientrerà. “Andare via lasciando qua le persone che sono diventate amiche, oltre che colleghi, è difficile, e come l’altra volta continuerò a parlare, raccontare, sensibilizzare, per cercare di smuovere un po’ le coscienze. Continuerò anche a portare in giro, anche nelle scuole, il mio libro che ho scritto su Gaza l’anno scorso (Brucia anche l’umanità – Diario di un’infermiera a Gaza. Edito da Infinito Edizioni, 104 pagine). Ma sarà difficile partire. Qui sto anche ricevendo degli insegnamenti. La storia della mia collega è, per me, abbastanza identificativa del fatto che qui la popolazione, così come i colleghi, ti insegnano ad andare avanti sempre, a ricostruire, a ritrovare quella forza anche quando senti che non ne puoi più. Per me questo è un insegnamento importante: in un luogo come questo, dove tutti hanno perso moltissimi membri della famiglia, hanno perso la casa, hanno perso le loro attività, si sono spostati più di 20 volte, avere ancora quella spinta è qualcosa di non banale”.
Chiudiamo la telefonata.
Fuori dalla mia finestra un ragazzino in strada non si scansa, e prende una strombazzata da un conducente che andava di fretta. Manda l’automobilista a quel paese, recupera il pallone con un gesto sciolto e fa passare la Mercedes.
Poi ricomincia a giocare.

![[foto: Mattia Calaprice/Wikimedia Commons]](https://www.eunews.it/wp-content/uploads/2025/12/Imagoeconomica_1783367-350x250.jpg)


![Maria Luís Albuquerque, commissaria per i Servizi Finanziari e l'Unione del Risparmio e degli Investimenti [Bruxelles, 4 dicembre 2025]](https://www.eunews.it/wp-content/uploads/2025/12/albuquerque-350x250.png)

![Federica Mogherini [archivio]](https://www.eunews.it/wp-content/uploads/2016/05/mogherini.jpg)







![[foto: Mattia Calaprice/Wikimedia Commons]](https://www.eunews.it/wp-content/uploads/2025/12/Imagoeconomica_1783367-120x86.jpg)