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    Home » Non categorizzato » Luigi Di Maio vuole l’euro 2. Di cosa si tratta?

    Luigi Di Maio vuole l’euro 2. Di cosa si tratta?

    [di Guido Iodice] «Noi abbiamo sempre detto che l’euro così non funziona e che dobbiamo preferirgli l’euro 2 o monete alternative», ha detto il vicepresidente della Camera a Ballarò. L'impossibile referendum sull’euro, la discussione sulle valute alternative e come dovrebbe essere fatto l’euro 2.0.

    Redazione</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/eunewsit" target="_blank">eunewsit</a> di Redazione eunewsit
    24 Giugno 2016
    in Non categorizzato

    di Guido Iodice 

    [Martedì 21 giugno] Luigi Di Maio a colloquio con Massimo Giannini su Ballarò ha risposto nella parte finale dell’intervista a una serie di domande su Unione europea ed euro. Nel video dell’intervista pubblicato dalla Rai la questione viene affrontata a partire dal minuto 15. Abbiamo trascritto la discussione tra Di Maio e Giannini:

    Io penso soltanto che noi siamo entrati al Parlamento europeo per cambiare molti trattati, come quelli che danneggiano la nostra economia agricola come quello sulle arance marocchine e l’olio tunisino. Sulla Brexit aspettiamo i risultati ma già il fatto che un paese come la Gran Bretagna abbia fatto un referendum per uscire dall’Unione europea è già un fallimento per l’Unione europea.

    Ok, ma per l’euro? Ci dobbiamo restare o no nell’euro?

    Sull’euro per la prima volta in tanti anni credo che debbano scegliere i cittadini italiani con un referendum consultivo.

    Ma la vostra linea qual è?

    Un referendum consultivo sull’euro.

    Non avete una linea, quindi

    Noi abbiamo sempre detto che l’euro così non funziona e che dobbiamo preferirgli l’euro 2 o monete alternative.

    Così ieri sera di è espresso Luigi Di Maio, candidato premier in pectore del M5S, interrogato a Ballarò da Massimo Giannini.

    L’impossibile referendum sull’euro

    Come è noto, la Costituzione proibisce referendum in materia di trattati internazionali e l’euro è stato istituito proprio tramite un trattato internazionale, quello di Maastricht (1992). Pertanto, per fare un referendum, sia pure consultivo, è necessaria una legge costituzionale, come fu quella che permise il referendum di indirizzo del 1989 in cui gli italiani dissero sì (88%) ai poteri costituenti per il parlamento europeo. Stando così le cose, bisognerebbe trovare una maggioranza dei due terzi in parlamento. In caso contrario, con una maggioranza semplice, basterebbe che un quinto dei deputati o senatori chiedesse un referendum confermativo (come quello a cui saremo chiamati in ottobre) per trovarci in una situazione paradossale: un referendum per confermare la convocazione di un referendum per uscire dall’euro.

    E questo è ancora nulla. Qualora i sondaggi dessero in vantaggio l’opzione di uscita dall’euro, chiunque abbia un gruzzoletto incomincerebbe a trasferire capitali all’estero, semplicemente vendendo i titoli italiani e comprando titoli esteri, ad esempio bund tedeschi. Un po’ per timore, un po’ per poter lucrare sulla svalutazione della nuova moneta. Molti, come accaduto in Grecia, assalirebbero gli sportelli per ritirare i propri soldi dalle banche, che probabilmente dovrebbero chiudere i battenti per settimane. Lo spread salirebbe a cifre mai viste prima e quasi certamente la BCE non interverrebbe per calmare le acque. Sospinti dallo spread, anche i tassi di interesse salirebbero, strozzando l’economia. Le banche, tra corsa agli sportelli e fughe di capitali, chiuderebbero tutti i (pochi) rubinetti del credito. Il mercato interbancario europeo farebbe carne di porco delle nostre banche. Alcune, quelle più in bilico, potrebbero fallire e dovrebbero essere salvate dallo Stato, che per farlo dovrebbe indebitarsi, ma a tassi oltremodo svantaggiosi. La BCE ci concederebbe la liquidità di emergenza con il contagocce, creando così una stretta monetaria che porterebbe il paese alla paralisi.

    Un’immediata e severa recessione sarebbe inevitabile. Il governo probabilmente ad un certo punto si troverebbe costretto a imporre il controllo dei movimenti di capitali, cosa che renderebbe particolarmente difficoltosa la vita delle nostre imprese, che avrebbero difficoltà ad approvvigionarsi di materie prime e semilavorati. Il che renderebbe anche difficile esportare al fine di finanziare l’import. Insomma, un disastro annunciato. Si badi bene che il pericolo che correrebbe l’Italia sarebbe maggiore di quello che ha corso la Grecia, che peraltro è tutt’ora in recessione, perché quest’ultima ha quasi tutto il debito pubblico fuori dal mercato (in mano all’Unione europea e all’FMI), mentre il nostro è quasi completamente sul mercato.

    Basta immaginarsi in che clima si svolgerebbe un referendum sull’euro per anticipare il suo risultato: un secco no all’uscita. A differenza dei greci, infatti, gli italiani qualche risparmio ce l’hanno ancora e quindi sentono di avere qualcosa da perdere se la loro banca fallisce.

    L’euro 2 o monete “alternative”? 

    Non è ben chiaro cosa Di Maio intenda per “euro 2”. Si tratta forse della proposta di dividere l’eurozona in due creando un euro sud ed un euro nord? In tal caso, ben prima del referendum, occorrerebbe per lo meno mettersi d’accordo con altri paesi su questa proposta. Oppure si tratta di un “euro 2.0”, vale a dire una riforma dell’unione monetaria per renderla funzionale? In questo caso il referendum sarebbe un modo per forzare il dibattito sul tema a livello europeo. Se è così ben venga, anche se bisognerebbe conoscere quale proposta di riforma il M5S vorrebbe avanzare. Ma non sembra questo ciò che il M5S intende proporre. La proposta di legge di iniziativa popolare presentata dal M5S è infatti molto chiara sin dal titolo “Indizione di un referendum di indirizzo sull’adozione di una nuova moneta nell’ordinamento nazionale in sostituzione dell’euro”. L’articolo 2 del disegno di legge riporta il quesito referendario:

    Ritenete voi che si debba adottare una nuova moneta nell’ordinamento nazionale in sostituzione dell’euro, rimanendo nell’Unione europea come Paese membro “con deroga” ai sensi dell’articolo 139 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ed a tale scopo si debba delegare il Governo ad adottare le disposizioni e le misure necessarie per l’introduzione della nuova moneta nell’ordinamento nazionale, assumendo le iniziative necessarie per la determinazione del tasso di cambio al quale la nuova moneta subentrerà all’euro e la relativa data di decorrenza, e disponendo l’abrogazione delle norme incompatibili?

    Detto in poche parole, il M5S propone un referendum per tornare alla lira, o al limite per adottare una imprecisata “nuova moneta” (l’euro sud?), non per un “euro 2.0”. E che dire delle “monete alternative”? Anche qui l’ambiguità regna sovrana. Ovviamente un ritorno alla lira sarebbe già l’introduzione di una “moneta alternativa” all’euro. E dato che l’euro è l’unica moneta legale ammessa in Italia, l’istituzione di “monete alternative” significherebbe uscire dall’euro. Ma probabilmente Di Maio si è confuso e voleva intendere “monete complementari”. In tal caso non servirebbe neanche un referendum, e non certo per uscire dall’euro, che rimarrebbe la moneta legale del nostro paese, affiancato da quelle che sono considerate quasi-monete. Una proposta in tal senso, sotto forma di “certificati di credito fiscale”, è stata avanzata da tempo. Su di essa mi permetto di citare il libro La battaglia contro l’Europa in cui, con Thomas Fazi, ho affrontato anche questo argomento:

    I certificati di credito fiscale (CCF) verrebbero emessi dal governo e sarebbero in sostanza dei crediti sulle tasse future (a due anni)… L’auspicio è che essi vengano percepiti come moneta e utilizzati negli scambi, perlomeno tra imprese e tra quest’ultime e lo Stato… Un merito della proposta è che essa riconosce esplicitamente l’impraticabilità e i rischi di un’uscita unilaterale dall’eurozona e pertanto si preoccupa di trovare una soluzione “morbida”. I problemi però sono molteplici. In primo luogo i promotori danno per scontato che l’emissione di questa quasi-moneta non violi i trattati. Ammesso che sia così, tuttavia è facilmente immaginabile che la Commissione chiami lo Stato a rispondere davanti alla Corte di giustizia europea. L’incertezza dell’esito farebbe precipitare il valore dei CCF nei confronti dell’euro, rendendo via via meno efficace il programma. Ammettendo però di superare questo scoglio, un ulteriore problema è costituito dal fatto che i CCF andrebbero conteggiati come deficit e di conseguenza sommati allo stock di debito pubblico. Anche qui, i promotori insistono che questo non rappresenta un problema, ma la Commissione potrebbe porre comunque ostacoli che minerebbero la fiducia del pubblico… Supponendo tuttavia di superare a pieni voti il test dell’incertezza, si pone paradossalmente il problema della possibile tesaurizzazione dei CCF. Per quanto riguarda la parte utilizzata per i trasferimenti, il pubblico potrebbe semplicemente decidere di non spenderli, ma di detenerli fino a quando potranno essere usati per pagare le imposte, peraltro l’unico momento in cui il valore dei CCF potrebbe essere considerato sicuro ed eguale a quello facciale. In tal caso, l’effetto moltiplicativo sarebbe nullo e lo Stato si troverebbe con un buco di bilancio imprevisto.

    Come dovrebbe essere fatto l’euro 2.0?

    Supponiamo tuttavia che l’euro 2 di Di Maio sia l’idea di riformare l’eurozona. Come si potrebbe fare? In un paper intitolato “Perché una maggiore integrazione è la risposta sbagliata ai problemi dell’euro: le ragioni di uno stimolo fiscale decentralizzato”, recentemente premiato dal think tank Progressive Economy (vicino al Partito del Socialismo Europeo), Thomas Fazi e io abbiamo avanzato una proposta molto semplice ma, crediamo, tendenzialmente risolutiva per la crisi dell’eurozona.

    In primo luogo proponiamo che, prendendo atto del fatto che i paesi periferici dell’eurozona si trovano in una “balance sheet recession” (recessione da deterioramento degli stati patrimoniali), si dovrebbe concedere una deroga sostanziosa al patto di stabilità, consentendo di aumentare i deficit nazionali fino al punto di compensare il risparmio desiderato da parte dei cittadini di ciascun paese. Nel caso dell’Italia, secondo le stime di Richard Koo di Nomura, si tratterebbe di un deficit del 6% del PIL. L’intera differenza tra tale livello di deficit e quello che lo Stato dovrebbe mantenere in base alle regole europee esistenti, dovrebbe essere destinato agli investimenti pubblici, non alla spesa corrente.

    La seconda parte della nostra proposta consiste nell’impegno, da parte della BCE, a garantire i debiti pubblici dei paesi dell’eurozona in modo indiretto, vale a dire enunciando l’impegno a mantenere lo spread entro i 30 punti base (il livello pre-crisi). Questo non solo aiuterebbe gli Stati a perseguire l’obiettivo di “riparare” la balance sheet recession ma farebbe svanire nel giro di settimane la crisi dell’euro, perché svanirebbe il rischio percepito dai mercati di default sovrano o abbandono dell’unione monetaria. In altre parole, una misura del genere semplicemente renderebbe un titolo greco equivalente ad uno tedesco e quindi una banca greca ad una tedesca e ancora un conto corrente greco equivalente ad uno tedesco. O se vogliamo dirla in sintesi, renderebbe l’“euro greco” uguale ad un “euro tedesco”, che è esattamente il senso di ciò che una “unione monetaria” dovrebbe essere.

    Questa proposta, quasi sicuramente, troverebbe il consenso di diversi governi, a partire da quelli di Grecia e Portogallo e di un possibile governo Podemos-PSOE che (auspicabilmente) potrebbe nascere in Spagna dopo le elezioni del 26 giugno. Inoltre, essendo stato premiato da un think tank vicino al PSE, sarebbe molto difficile per il PD spiegare perché non va bene. Forse questo potrebbe interessare particolarmente all’on. Di Maio.

    Pubblicato su Next il 22 giugno 2016. 

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