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    Home » Non categorizzato » Perché la Brexit è la scelta migliore per il Regno Unito: una prospettiva di sinistra

    Perché la Brexit è la scelta migliore per il Regno Unito: una prospettiva di sinistra

    [di Alan Johnson] ONEURO /// «Abbiamo votato Leave perché crediamo che sia essenziale preservare le due cose a cui crediamo di più: un sistema politico democratico e una società socialdemocratica».

    Redazione</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/eunewsit" target="_blank">eunewsit</a> di Redazione eunewsit
    30 Marzo 2017
    in Non categorizzato

    di Alan Johnson

    Mercoledì il primo ministro del Regno Unito, Theresa May, ha mandato una lettera al presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, per informarlo che, dopo 44 anni di appartenenza, il Regno Unito lascerà l’Unione europea. Tra circa due anni, al termine delle negoziazioni sui termini dell’uscita, l’Unione perderà in un solo colpo «un ottavo della sua popolazione, un sesto del PIL, metà dell’arsenale militare e un seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”, come ha fatto notare recentemente Susan Watkins, editrice della New Left Review.

    La Watkins è una “Lexiteer”, ossia una sostenitrice di sinistra della “Brexit”, come me. Non siamo stati una forza significativa tra il 52 per cento dei britannici che hanno votato a favore dell’uscita nel referendum del 23 giugno. Ma abbiamo avuto una certa influenza. I Lexiteers – un contrappeso a coloro che cavalcavano le paure anti-immigrazione come l’ex leader di destra dell’UKIP, Nigel Farage – sostengono la Brexit da un punto di vista democratico, internazionalista e di sinistra. Questa posizione è stata espressa perfettamente da Perry Anderson, l’ex editore di vecchia data della New Left Review: 

    L’UE è ormai largamente vista per quello che è diventata: una struttura oligarchica, piena di corruzione, costruita sulla negazione di ogni tipo di sovranità popolare, sull’applicazione di un duro regime economico di privilegi per pochi e sacrifici per molti.

    Nonostante i Lexiteer non abbiano alcuna simpatia per il nichilismo nazionale degli “uomini di Davos”, ossia l’élite globalista, non siamo degli xenofobi. Abbiamo votato “Leave” perché crediamo che si essenziale preservare le due cose a cui crediamo di più: un sistema politico democratico e una società socialdemocratica. Temiamo che il progetto autoritario dell’Unione europea di integrazione neoliberista sia il terreno di cultura dell’estrema destra. Sottraendo al processo democratico così tante decisioni politiche, inclusa l’imposizione di misure di austerità a lungo termine e di immigrazione di massa, l’Unione ha rotto il patto tra i politici nazionali mainstream e i loro elettori. Questa situazione ha aperto le porte ai populisti di destra che ritengono di rappresentare “il popolo”, già arrabbiato a causa dell’austerità, contro gli immigrati.

    È stato l’economista liberista Friedrich Hayek, l’architetto intellettuale del neoliberalismo, che nel 1939 invocava un “federalismo interstatale” in Europa per evitare che gli elettori potessero utilizzare la democrazia per interferire con le operazioni del libero mercato. In altre parole, come ha detto il presidente della Commissione europea (l’organo esecutivo dell’unione), Jean-Claude Juncker: «Non ci possono essere decisioni democratiche che si oppongono ai trattati europei».

    Le istituzioni e i trattati dell’unione sono stati progettati di conseguenza. La Commissione europea viene nominata, non eletta, ed è orgogliosamente libera da ogni responsabilità nei confronti degli elettori. «Non cambiamo le nostre decisioni a seconda di come vanno le elezioni»; così il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen ha commentato la vittoria del partito anti-austerità SYRIZA, in Grecia, nel 2015.

    Il Parlamento europeo non è un vero parlamento. Non ha vero potere legislativo; i suoi delegati non elaborano programmi politici né portano avanti idee che propongono agli elettori. Le elezioni, tenute in collegi elettorali assurdamente estesi, con affluenze pietosamente basse, non cambiano nulla. Come ha detto un membro dello staff parlamentare a un seminario organizzato dalla London School of Economics: «Le uniche persone che ascoltano i parlamentari europei sono gli interpreti».

    Il Consiglio europeo, un organo intergovernativo dove risiede il vero potere legislativo, specialmente se pensiamo alla tedesca Angela Merkel, è formato dai capi di Stato dei vari Stati membri, che normalmente si incontrano quattro volte all’anno. Non sono eletti direttamente dagli abitanti delle nazioni che governano. Se poi parliamo del principio di “sussidiarietà” dell’Unione, una presunta preferenza per il governo decentrato, esso viene ignorato in tutte le questioni pratiche.

    I desideri dell’elettorato vengono regolarmente ignorati. Quando, nel 2005, la proposta di una Costituzione europea è stata rigettata dagli elettori di Francia e Olanda (la maggior parte dei governi non ha nemmeno permesso che avvenisse un voto popolare), questo fatto non ha cambiato niente per i sostenitori del progetto europeo. Con qualche cambiamento cosmetico, la Costituzione è stata comunque imposta; solo che è stata ridenominata Trattato di Lisbona (l’Irlanda, unico Stato a consentire un referendum sul Trattato, votò contro. Di conseguenza fu chiesto agli irlandesi di rivotare, finché non avessero votato nella maniera giusta. Questa è la democrazia secondo l’Unione europea).

    A prescindere da cosa avrebbe potuto essere l’Unione, sin dagli anni ’80 essa ha integrato nel suo progetto l’economia neoliberista Nel farlo, si è trasformata in quello che il sociologo tedesco Wolfgang Streeck ha definito «un potente motore di liberalizzazione al servizio di una profonda ristrutturazione della vita sociale in senso prettamente economicista». La combinazione di mercato unico, Trattato di Maastricht, moneta unica e patto di stabilità e crescita ha imposto politiche di deregolamentazione, privatizzazione, regole contro il lavoro, regimi di tassazione regressivi, tagli al welfare e finanziarizzazione, e le hanno poste al di sopra della volontà dei popoli.

    Occorre notare che gli strumenti economici keynesiani, su cui poggia la socialdemocrazia, sono ora illegali in Europa, e perfino The Economist ne è nauseato, e ha scritto che queste regole «sembrano molto poco raccomandabili politicamente». Per quanto riguarda l’accordo di scambio tra Unione europea e USA, il TTIP, sembra di vedere le fantasie di Hayek prendere vita, dato che potenzialmente esso consente alle multinazionali di far causa ai governi democraticamente eletti se questi osano ascoltare quanto gli chiedono di fare gli elettori.

    Un’altra istituzione chiave dell’unione neoliberale è la Banca centrale europea. I governatori della banca, persone non elette e che non devono rispondere a nessuno del proprio operato, sono vincolate per trattato a preferire la deflazione alla crescita, a proibire gli aiuti di Stato alle industrie in difficoltà e a imporre le misure di austerità. Analogamente, la moneta unica agisce da cappio per intere regioni europee, che non possono né svalutare la propria moneta (come possono fare le nazioni sovrane) per recuperare competitività, né uscire dalla stagnazione attraverso la crescita, perché sono costrette tramite austerità a far crollare la propria economia.

    Il costo umano è stato spaventoso. La tortura economica a cui l’Unione europea ha sottoposto la Grecia ha causato il taglio del 25 per cento degli stanziamenti per gli ospedali e del 50 per cento della spesa in medicine, mentre il tasso di infezioni da HIV si è impennato, i casi di depressione grave sono raddoppiati, i tentativi di suicidio sono aumentati di un terzo e il numero dei bambini nati morti è aumentato del 21 per cento. Quattro bambini greci su dieci sono stati spinti nella povertà e un sondaggio ha stimato che il 54 per cento dei greci oggi è sottoalimentato. Philippe Legrain, un ex consulente di Manuel Barroso, allora presidente della Commissione europea, ha osservato che in quanto «creditore europeo per eccellenza» la Germania ha «calpestato valori come democrazia e sovranità nazionale e creato uno stato vassallo».

    In casi estremi, i governi nazionali vengono di fatto allontanati a forza e rimpiazzati con tecnocrati compiacenti, come George Papandreou in Grecia e Silvio Berlusconi in Italia hanno potuto constatare. In cima a tutto poi c’è la Corte europea di giustizia, che ha emesso sentenze che subordinano il diritto di sciopero dei lavoratori al diritto dei datori di lavoro di fare affari con le mani libere. Hayek sorriderebbe nel vedere cose come questa.

    Anche se lo slogan del “Leave” è stato oggetto di scherno, la Brexit ha davvero significato la possibilità di «riprendere il controllo». La democrazia ha bisogno di un demos, un popolo, che sia l’origine, il tramite e l’obiettivo del suo governo. Senza un demos, quello che rimane è una gestione elitaria, il diritto dei trattati e la redistribuzione verso l’alto della ricchezza. Ma come sarà costruito “il popolo”? La politica lo deciderà. Un populismo di sinistra non cercherà di definire il popolo come fa la destra, in contrapposizione agli immigrati o ad altre categorie, ma in contrapposizione alle potenti élite neoliberiste, che non sono più in grado, usando le parole del professor Streeck, «di formare una struttura sociale intorno al nucleo centrale della corsa al profitto capitalista».

    È stato un errore colossale da parte della gente di sinistra pensare che gli Stati-nazione siano un anacronismo ostile alla democrazia. Anziché essere una minaccia alla democrazia, gli Stati-nazione sono l’unico fondamento stabile che abbiamo individuato per sostenere gli impegni, i sacrifici e la fiducia sociale di cui una democrazia e uno stato sociale hanno bisogno.

    In questo momento, la sinistra europea sta giocando le sue carte seguendo il manuale di un’altra parte politica, in una competizione truccata. Una parte della nazione, i vincitori, ha «usato il mondo globalizzato come fosse il proprio grande campo da gioco» come dice il professor Streeck. Uno, o forse l’unico, significato della Brexit è che, avendo perso la fiducia nelle sciocche promesse di una globalizzazione “che vada bene per tutti”, la rimanente parte della nazione – i perdenti, le vittime e gli esclusi – ha deciso, per disperazione, di fare un gesto sovrano: cambiare le regole per ritornare alla politica degli Stati-nazione, per poter ritornare a una situazione equilibrata. «Cercano rifugio», per usare le parole di Streeck, nella «protezione democratica, nelle leggi del popolo, nell’autonomia locale, nei beni collettivi e nelle tradizioni egualitarie».

    Anziché lasciare il campo alle destre “nativiste”, alcuni di noi della sinistra democratica si uniscono a loro.

    Pubblicato sul New York Times il 28 marzo 2017. Traduzione di Voci dall’Estero rivista da Thomas Fazi.

    Tags: brexitbruxellescommissione europeaeuropaoneuro

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