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    Home » Cultura » Giacomo Lariccia racconta il viaggio interiore di “Ricostruire”

    Giacomo Lariccia racconta il viaggio interiore di “Ricostruire”

    Intervista al cantautore italiano che ha pubblicato il suo quarto album, un percorso "alla ricerca delle proprie fragilità, di quelle delle relazioni fra le persone e dell’equilibrio del nostro mondo"

    Marco Restelli</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/@RestelliMarco22" target="_blank">@RestelliMarco22</a> di Marco Restelli @RestelliMarco22
    10 Aprile 2017
    in Cultura

    In un ristorantino di Bruxelles dall’invitante insegna italiana Lasagne e Tiramisù mi incontro finalmente con Giacomo Lariccia, uno dei cantautori italiani che ormai da diversi lustri “stazionano” nella Capitale d’Europa.  Da tempo volevo intervistarlo, dopo averlo visto suonare live circa un anno fa, e quindi ho pensato che l’uscita del suo nuovo album (il quarto) intitolato Ricostruire sarebbe stata un’occasione da non perdere. Umanamente è una persona molto rassicurante che nutre una passione viscerale per la musica, curandone tutti gli aspetti nel dettaglio durante la fase creativa. Il nuovo lavoro è un condensato di emozioni che ci siamo fatti raccontare direttamente da lui.

    Giacomo raccontaci qualcosa della tua storia artistica: da quanto tempo fai questo “mestiere” e come sei finito a Bruxelles?
    “Questo “mestiere” lo faccio da diversi anni e nel 2000 sono venuto a Bruxelles solo per studiare al Conservatorio. In realtà poi ci sono rimasto e mi sono diplomato in chitarra jazz. Ho fatto anche un disco di jazz, ma poi dopo un po’ in un certo senso con questo genere ci ho litigato. Mi sono innamorato di nuovo della canzone d’autore, che avevo ascoltato in passato per anni. Dopo i concerti di jazz spesso mi sentivo frustrato, invece la chitarra acustica e le canzoni mi divertivano molto di più e così è nato il primo disco: Colpo di sole col quale ho avuto la soddisfazione di raggiungere la finale del Premio Tenco come Migliore opera prima. Poi mi è capitato di nuovo, con Sessanta sacchi di carbone (Miglior canzone), sfiorando per un solo voto la vittoria. Peccato perché in fondo si tratta del premio vinto da Fabrizio De Andrè, Paolo Conte, Francesco De Gregori e di recente da Niccolò Fabi, quindi passare così vicino a raggiungere un traguardo così importante, ti lascia quel minimo di amaro in bocca. Ma, alla fine, già essere arrivato in finale con due dischi diversi, può essere considerato comunque un buon risultato, visto che comunque capita a pochi”.

    Veniamo al tuo nuovo album Ricostruire. Ascoltandolo mi sembra abbastanza evidente che stavolta, a differenza del disco precedente, manchi quell’aspetto ironico che invece era in parte presente in Sempre avanti. Condividi questa mia riflessione?
    “Sì, in Ricostruire in effetti non c’è la leggerezza di alcuni brani di Sempre avanti (come Piuttosto o Il Primo Capello Bianco), così come manca il riferimento a un tema storico (fatta eccezione per Celeste), di commemorazione di eventi importanti accaduti del passato, come invece era accaduto in entrambi i dischi precedenti. Questa volta c’è un viaggio interiore che va alla ricerca delle proprie fragilità, della fragilità delle relazioni fra le persone e dell’equilibrio del nostro mondo, quando ti accorgi che molte cose non sono come appaiono. Molte cose ti passano sopra la testa e spesso il grande ostacolo alla felicità sei te stesso, mettendoti continuamente al primo posto e pensando di essere sempre in debito con la vita, come se ogni volta ci fosse qualcuno che ti debba qualcosa. Questo disco, nella scrittura, è stato un po’ un’autocura e mi sono esposto per la prima volta in prima persona. Sono anche un po’ “preoccupato” per questo, ma alla fine mi sono detto che la canzone può essere anche introspezione e mi piaceva affrontare questi temi e in qualche modo condividerli”.

    Trovo che nella tua musica, così come nel tuo modo di cantare ci sia una certa influenza di alcuni autori italiani come Fabi e De Gregori. È solo un’impressione o effettivamente sono riferimenti reali?
    “Sicuramente De Gregori ha segnato tutta la mia infanzia e verosimilmente “la romanità” è un elemento chiave di entrambi, in questo senso. Però sono sincero, da quando ho capito che questi riferimenti iniziavano a diventare forti per me ho smesso di ascoltarli e infatti Ricostruire è certamente più influenzato da altri artisti. Uno è Damien Rice, il cui ultimo disco considero spettacolare, ma anche un cantautore americano che si chiama Joshua James. Da loro ho cercato di “rubare” un po’ qualcosa e assimilarlo per poi restituire il tutto in qualche modo con la mia cifra. Mi piacciono molto anche i Passengers, i Lumineers e i primi dischi dei Mumford & Sons di cui apprezzo molto l’energia straripante, ma l’approccio di questo mio disco è lontano da quello loro. È molto più delicato. Ho voluto che la canzone fosse al centro e che non ci fosse la necessità di raccontare una storia dalla A alla Z, con uno svolgimento e una conclusione, ma che ci fossero delle pennellate e anche delle ripetizioni di alcune parole, in modo quasi ipnotico. Volevo sottolineare dei concetti ed esprimere delle cose importanti”.

    Come e dove scrivi le tue canzoni?
    “Intanto scrivo a casa. A volte parte tutto da una sola parola, da qualche parola oppure da una semplice frase e poi riprendo e amplio il tutto. Ma direi che soprattutto c’è sempre un oggetto abbastanza definito nelle mie canzoni”.

    Hai in previsione un tour in giro per l’Europa per promuovere il disco o hai altre idee?
    “Per promuovere questo disco punteremo molto sui live. In fin dei conti è il momento migliore in cui incontri direttamente il tuo pubblico. Abbiamo in previsione delle date in Olanda, Germania, Belgio e stanno nascendo le prime date anche in Italia. Il mondo della discografia è diventato molto complicato quindi la promozione migliore è fatta soprattutto coi concerti. I canali che ora vanno per la maggiore come You Tube o i social network di cui riconosco le potenzialità, in parte li uso, ma non mi ci vedo a utilizzarli in modo “massiccio”. Ci vorrebbe una dedizione continua, quasi quotidiana, che sinceramente non ho. Non è quello il mio lavoro. Spero sinceramente che la qualità alla fine paghi a prescindere da tutto e credo che puntare sulle proprie forze sia la scelta giusta per me. Una cosa di cui sono contento e orgoglioso è che il disco è venuto esattamente come lo avevo pensato e concepito. Lavoro da anni con il mio chitarrista Marco Locurcio che mi aiuta in fase di produzione ed ha saputo seguire fedelmente quello che gli avevo chiesto. Non credo sia un caso che io stia avendo ottime reazioni e recensioni da tutti i critici che stanno ascoltando l’album. Questo conferma che alla fine la qualità del proprio lavoro premia sempre”.

    Tags: Giacomo Laricciamusica

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