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    Home » Editoriali » Gestire la complessità

    Gestire la complessità

    Lorenzo Robustelli</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/@LRobustelli" target="_blank">@LRobustelli</a> di Lorenzo Robustelli @LRobustelli
    28 Gennaio 2014
    in Editoriali

    Non c’è niente di male ad essere dei dilettanti, non è una colpa, finché lo si sa. Non c’è neanche niente di male, a un certo punto della propria vita, a mettere a disposizione del bene comune la propria esperienza. Anzi, è un atto meritevole. Ma non sempre funziona.

    Le cose della vita, del lavoro, della politica, della cultura, dell’impresa, sono sempre più complicate di quel che sembrano viste da fuori. Per questo ci sono i professionisti. Gestire un’azienda non è più facile che fare il medico, così come organizzare eventi culturali non è più facile che insegnare. Le cose, molto spesso, soprattutto da un certo livello in poi, sono complesse e la persona capace lo è proprio perché sa gestire la complicazione.

    Un ritratto di Jean Monnet su Time
    Un ritratto di Jean Monnet su Time

    Qui a Bruxelles abbiamo visto due esempi di persone con curriculum effettivamente buoni per fare quel che facevano prima, che hanno deciso di offrirsi, non certo senza una certa lusinga personale immaginiamo, al sacrificio per il bene pubblico. Tutte e due non hanno tratto gran beneficio da questo e quel che hanno lasciato si dovrà vedere in futuro quanto sarà valso. Una è Mario Monti, grande, indiscusso, tecnico ma minuscolo politico, che sei mesi dopo aver fondato un partito ed essersi presentato alle elezioni (contro il pur modesto parere di questo giornale) è rimasto senza governo e senza partito. Non è cosa semplice governare, e forse ancor meno semplice e è fare politica. Ancor più difficile è scegliersi dei consiglieri leali e competenti. Monti non ha brillato in nessuna delle tre cose, ed ora è lì, comodo ma ai margini, con un brillante ma non più impeccabile curriculum, che aspetta una nuova occasione.

    Altro esempio, mutatis mutandis, è la storia della persona “Chiara Fama” inviata un paio di anni fa dal ministro degli Esteri Franco Frattini a dirigere l’Istituto italiano di cultura di Bruxelles. La legge, in sostanza, consente al ministro, nella sua discrezionalità, di definire chi sia un Chiara Fama. Lui decise che Federiga Bindi (che tra l’altro, singolarità della vita, pensò anche di candidarsi con Monti alle politiche), ricercatrice universitaria che aveva avuto un contratto temporaneo di insegnamento nella cattedra Jean Monet all’Università di Roma Due meritasse questa qualifica. Però forse non aveva considerato che un Istituto di cultura è una macchina complessa, che oltre alle idee deve gestire bilanci, stipendi, spese varie, delle quali poi deve rendere conto al Ministero, in quanto si tratta di soldi pubblici, cioè soldi dei cittadini, dei quali a sua volta il governo dovrebbe render conto, nelle grandi linee, alle elezioni. Bindi aveva l’esperienza per farlo? Oggi il ministro degli Esteri attuale, Emma Bonino nel confermare che il contratto di Bindi scadrà il 9 marzo e non sarà rinnovato, dice che: “Il rapporto di fiducia con il Ministero degli Esteri è venuto meno anche a seguito delle risultanze di un’indagine ispettiva svolta congiuntamente dai Ministeri degli Esteri e dell`Economia e delle contestazioni mosse dagli stessi ispettori nei confronti della Direttrice a fronte delle gravi irregolarità amministrativo-contabili”. “Anche”, evidentemente c’è dell’altro, ma il ministro non lo dice.

    Bonino poi coglie con precisione il punto della questione, partendo dal quale qui abbiamo generalizzato: l’incarico a Bindi non è stato rinnovato “ritenendo la correttezza amministrativa e contabile altrettanto necessaria quanto il dinamismo dell`offerta culturale, che certamente non verrà meno con il successore”. Due punti coglie Bonino: le idee da sole non camminano, bisogna saperle far camminare (altrimenti vanno a sbattere e magari muoiono)0, rispettando forme e procedure che sono magari, anzi certamente complesse, ma non impossibili, visto che, non so, Furio Colombo a New York o Vittorio Strada a Mosca non finirono in questi pasticci, e come loro neanche gli altri Chiara Fama che ci vengono in mente; e poi il secondo è che i “burocrati” sono , anche qui, magari non sempre, gente che il proprio lavoro lo sa fare, gente che si è formata, che ha fatto esperienza per gestire un Istituto di cultura e dunque normalmente lo sa fare. Che un funzionario pubblico sostituisca un Chiara Fama (avendo poi magari gli stessi titoli accademici o quasi) non è affatto garanzia di impoverimento dell’offerta culturale. Anzi, dipende dal Chiara Fama.

    Attenzione dunque ai tecnici, risorsa magari utile, alla quale ricorrere con grande misura e solo in casi eccezionali, perché, di fatto, rischiano di mettere in discussione i meccanismi di funzionamento delle nostre democrazie rappresentative.

     Lorenzo Robustelli

    Tags: federiga bindimario monti

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