Bruxelles – Gibilterra rischia di ripetere l’esperienza delle Falkslands/Malvinas, le isole contese tra Regno Unito e Argentina che vede i due Paesi cannoneggiarsi per il loro controllo. Se a dirlo è un britannico forse c’è da crederci, per di più se conservatore proprio come quella lady di ferro (Margareth Tatcher) che andò alla guerra per i possedimenti d’oltremare. Michael Howard, capo dei Tories dal 2003 al 2005, avverte: la storia potrebbe ripetersi. “Trentacinque anni fa un’altra donna premier inviò una taskforce per difendere la libertà di un piccolo gruppo di britannici contro un altro Paese di lingua spagnola, sono certo che la nostra attuale premier farebbe lo stesso per difendere gli abitanti di Gibilterra”. Più che la Scozia è forse Gibilterra il nervo europeo messo allo scoperto dalla Brexit e mette a nudo le fragilità di quella pace tanto decantata in questi anni. Sessant’anni di pace in Europa grazie al progetto di integrazione: è il ritornello che ha accompagnato il 60esimo anniversario dei trattati di Roma e il mantra ripetuto dopo la Brexit. Però la questione di Gibilterra è lì da 500 anni e anche di più, e neppure l’Ue l’ha risolta.
Una storia che inizia nel 1501. Spagna e Portogallo hanno impiegato qualcosa come 750 anni per portare a termine la “reconquista” della penisola iberica e cacciare definitivamente gli arabi. Chiaro che gli spagnoli abbiano un certo attaccamento a Gibilterra, strategica in quanto uno dei posti delle mitiche colonne d’Ercole, il confine tra il Mediterraneo e il più sconfinato oceano. Questa lingua di terra alle propaggini della penisola iberica è rimasta spagnola per appena due secoli, dal 1501 al 1713, quando il trattato di Utrecht la cedette al Regno Unito in modo definitivo. O quasi. Il suddetto trattato cedeva al Regno Unito “la piena e completa proprietà della città e del castello di Gibilterra, insieme al porto, alle fortificazioni e alle fortezze ad essa appartenenti”. Proprietà, e non sovranità. La Spagna si tenne aperta la via del cavillo giuridico per tornare, prima o poi, a Gibilterra. E adesso torna a reclamare ciò che considera proprio. In particolare quel lembo su cui gli inglesi nel 1942 costruirono un aeroporto come base per la guerra in Nordafrica. Territorio e installazione mai più abbandonati e che non rientrano nell’accordo firmato nel XVIII secolo.
Gibilterra ama la “Union Jack”. In due occasioni a Gibilterra si è votato per decidere del proprio destino. Un primo referendum indetto dal governo britannico nel 1967 per stabilire che status conferire agli abitanti del luogo, ha visto i cittadini votare in modo inequivocabile per il “remain” (99,6% a sostegno della permanenza nel Regno Unito). Un secondo referendum indetto nel 2002 ha invece bocciato la proposta di condivisione di sovranità con la Spagna. Tutto questo non ha però sciolto i nodi della questione di Gibilterra.
Un territorio d’oltre mare, ma senza il mare. Sebbene Gibilterra sia formalmente britannica, le acque che la bagnano non sono mai state cedute dalla Spagna alla corona britannica. Il trattato di Utrecht, come ricordato, non contiene alcun riferimento al mare tutt’intorno il territorio e la Spagna lo considera parte delle proprie acque territoriali. Il Regno Unito le considera e le reclama per sé. Un altro aspetto tenuto in stand-by fino a oggi. La Brexit riapre il capitolo relativo al controllo del mare, con nuovi scenari tutti da stabilire per il porto di Gibilterra: entrarvi e uscirvi potrebbe richiedere permessi (e perché no, anche pagamento di diritti) di Madrid.
La Brexit e la partita di Gibilterra: i cieli. Le autorità spagnole hanno già fatto sapere che non intendono concedere il diritto di sorvolo degli aerei diretti a Gibilterra. Questo perché il Regno Unito, abbandonando l’Ue, dovrà rinegoziare l’accesso anche allo spazio aereo comune (Cieo unico europeo). Brexit significa dire addio all’ambizioso progetto cielo unico europeo (Ses, single european sky), “l’Unione europea dell’aria”. Se Londra non accetterà le condizioni dettate da Madrid i voli di collegamento tra Gran Bretagna e Gibilterra invece di procedere in linea retta dovranno procedere in tondo per aggirare la penisola iberica. Ciò renderebbe il collegamento aereo più oneroso, perché verrebbe a costare di più, e più lungo. Lo scalo di Gibilterra, motivo di mancata creazione di uno spazio unico europeo dei cieli, è attualmente gestito da entrambe le parti, cosa resa possibile dalla contemporanea appartenenza all’Ue che impone stessi standard. Con uno dei due soggetti che va via si pone il nuove problema di chi ne sarà responsabile e in base a quali regole.
La Brexit e la partita di Gibilterra: la frontiera di terra. Con il Regno Unito fuori dall’Ue la frontiera tra Spagna e Gibilterra diventa “esterna”. Vuol dire che gli spagnoli avranno il diritto e il dovere di controllarla, e piuttosto minuziosamente. Ciò implica che persone e merci in transito da Gibilterra verso la Spagna e viceversa avranno barriere per tutto ciò che extra-comunitario. Si profila un danno economico ancora da quantificare. Sono gli Stati membri dell’Ue con la frontiera esterna a essere responsabili del loro controllo. E’ dunque Madrid che deciderà come e quanto controllare.
Territorio conteso, la Commissione si barcamena. Per il Consiglio dell’Ue, il consesso degli Stati membri, Gibilterra “è un territorio conteso tra due Stati attualmente membri dell’Ue”. Lo ha ammesso un alto funzionario europeo, riconoscendo la complessità del caso. Servirà un accordo bilaterale separato tra Londra e Madrid, che però rischia di pesare sui negoziati più generali. In Consiglio spiegano che nei negoziati di divorzio, al pari di quelli per nuove relazione che seguiranno, Consiglio e Commissione faranno gli interessi degli Stati membri. Difficile immaginare che si faccia l’interesse di Londra nella questione di Gibilterra, è facile immaginare che la Spagna chiederà tutte le tutele del caso. Finora la Commissione europea ha sempre evitato di esprimersi, un po’ perché non essendo un vero governo europeo in senso federale si astiene dall’entrare troppo nel merito di questioni che riguardano Stati membri, un po’ perché Gibilterra rischia di rimettere in discussione quella pace durata 60 anni. “Stiamo dalla parte del dialogo e della cooperazione”, dice Margaritis Schinas, capo del servizio dei portavoce dell’esecutivo comunitario. Una risposta diplomatica che toglie il team Juncker dall’impaccio di una questione che lo vede in forte difficoltà, ma che lascia intendere che la Commissione resta comunque disponibile a mediare per quanto possibile.
La Scozia. La Spagna è da sempre contraria all’idea di regioni che si scindono per dare vita a forme Statali indipendenti e sovrane. Questo per via delle spinte indipendentiste in Spagna (oggi è la Catalogna, prima sono stati i Paesi Baschi). Ma di fronte a Gibilterra ecco che la Scozia viene usata come strumento di pressione. Il ministro degli Esteri spagnolo ha detto che se gli scozzesi dovessero tenere un secondo referendum per l’indipendenza dal Regno Unito e la nascita di una nazione scozzese dovesse realizzarsi nel rispetto delle regole e della Costituzione, la Spagna non avrebbe niente da dire a un suo ingresso nell’Ue (per cui è richiesta l’unanimità). Un modo per fare pressione, con l’auspicio che i cittadini inglesi e spagnoli di Gibilterra non finiscano per diventare merce di scambio. La Spagna intanto sfrutta la posizione di debolezza britannica per tornare a Gibilterra. Sarà guerra? Probabilmente no, ma meglio non provare a verificare fin dove le parti possono spingersi.
Il Ppe dalla parte della Spagna. La famiglia dei popolari europei (Ppe), che vanta il primo gruppo in Parlamento europeo, è pronta a sostenere la causa spagnola in questa contesa. “Da adesso in poi terremo conto degli interessi dei Ventisette, e terremo quindi conto degli interessi della Spagna”, ha detto il capogruppo Ppe, Manfred Weber. “Non ci si deve lamentare di questo. Questo è il risultato della Brexit. Uscire vuol dire restare da soli”. La deputata europea del Pd Isabella Monte ha ricordato che a Gibilterra il 96% dei votanti ha scelto l’Ue, e alla luce di ciò ha chiesto “un atteggiamento meno rigido da parte del presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk”, un popolare.