Bruxelles – A un anno da quando Ursula von der Leyen gli affidò l’incarico, Mario Draghi ha svelato oggi (9 settembre) il rapporto sul futuro della competitività europea. Uno studio di 400 pagine in cui l’ex premier italiano ha indicato la strada alle istituzioni europee per non affogare nel nuovo ecosistema globale più aggressivo e competitivo. Non c’è più tempo: “Siamo arrivati al punto in cui, senza agire, dovremo scegliere se compromettere il nostro benessere, il nostro ambiente o la nostra libertà”, avverte Draghi.
In una conferenza stampa con la presidente della Commissione europea, l’ex presidente della Bce è stato chiaro: per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la capacità di difesa, serve mettere sul piatto investimenti massicci, come mai l’Europa ha fatto nella sua storia moderna. “La quota di investimenti in Europa dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del Pil“, indica Draghi. Per fare un confronto, durante l’immenso Piano Marshall che rimise in sesto l’Europa dilaniata da secondo conflitto mondiale, gli investimenti ammontavano a circa l’1-2 per cento del Pil all’anno. Si tratta di 750/800 miliardi l’anno, conta l’ex premier.
Senza un cambio di marcia in questo senso, qualcosa o qualcuno rimarrà indietro: “Non potremo diventare, allo stesso tempo, un leader nelle nuove tecnologie, un faro della responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale”. E “non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale”. Anche perché, avverte l’economista italiano – e non è una notizia – l’inverno demografico europeo è alle porte. Entro il 2040, la forza lavoro si ridurrà di quasi 2 milioni di unità all’anno.
Draghi snocciola circa 170 proposte per un radicale cambiamento della strategia industriale dell’Ue. Ma “non partiamo da zero”, rassicura. Bisogna colmare il divario di innovazione con Stati Uniti e Cina, soprattutto nelle tecnologie avanzate. Le imprese Ue spendono 270 miliardi di euro in meno rispetto a quelle a stelle e strisce in ricerca e innovazione. E anzi, molti imprenditori europei salutano il mercato unico e si trasferiscono all’estero, soprattutto sull’altra sponda dell’Atlantico dove è più facile chiedere finanziamenti. Tra il 2008 e il 2021, “quasi il 30 per cento delle fondate in Ue che hanno superato il valore di 1 miliardo di dollari, ha trasferito la propria sede all’estero”, si legge nel rapporto.
C’è poi l’altra grande chimera: un piano comune europeo che coniughi decarbonizzazione e competitività. Bisogna rimodellare un mercato dell’energia inefficiente, con le aziende europee che pagano l’elettricità almeno il doppio di quanto pagano i colleghi americani. “Le regole del mercato impediscono alle industrie e alle famiglie di cogliere appieno i benefici dell’energia pulita nelle loro bollette“, ammette Draghi. E nonostante sul vecchio continente si sviluppino più di un quinto delle tecnologie pulite e sostenibili al mondo, l’opportunità resta ancora tutta da cogliere. “La decarbonizzazione deve avvenire per il bene del nostro pianeta. Ma perché diventi anche una fonte di crescita per l’Europa, avremo bisogno di un piano congiunto che abbracci le industrie che producono energia e quelle che permettono la decarbonizzazione”, è la ricetta dell’economista italiano.
Il terzo grande capitolo riguarda la sicurezza e la riduzione delle dipendenze dai giganti del mondo. Russia docet, l’Ue deve sviluppare maggiore autonomia strategica. Bisogna diversificare, la Cina non basta, perché la domanda globale di materie prime critiche per la transizione “sta esplodendo” e l’Europa non è per forza un cliente privilegiato. Servono “accordi commerciali preferenziali e investimenti diretti con i Paesi ricchi di risorse“, serve mettere da parte “scorte in aree critiche selezionate” e creare “partenariati industriali per garantire la sicurezza della catena di approvvigionamento delle tecnologie chiave”.
Per Draghi la chiave di volta è l’aumento della produttività. Perché quest’ultimo genererà maggiore spazio fiscale, che permetterà al settore pubblico di fornire il sostegno necessario al finanziamento degli investimenti che – sebbene fondamentale – il settore privato non potrebbe garantire. Nella sua visione l’aumento della produttività non deve andare a discapito dei lavoratori. “Non si tratta di costo del lavoro o di flessibilità. La risposta è l’innovazione, l’high tech. E la formazione”, ha garantito l’ex premier in conferenza stampa.
La guerra in Ucraina e la minaccia russa hanno acceso i riflettori anche sulla capacità di difesa dell’Ue. Con lo spauracchio di un ritorno di Trump alla Casa Bianca, che potrebbe ridiscutere lo storico impegno di Washington nella protezione degli alleati europei. L’Ue è seconda al mondo per spesa militare, ma gli Stati membri si muovono a loro discrezione. La diagnosi di Draghi è chiara: l’industria troppo frammentata ostacola la capacità di produrre su larga scala, la mancanza di standardizzazione e di interoperabilità delle attrezzature indebolisce la capacità dell’Europa di agire come una potenza coesa. Ad esempio, sottolinea il rapporto, in Europa vengono prodotti dodici diversi tipi di carri armati, mentre gli Stati Uniti ne producono solo uno.
Quest’ultimo punto mette in luce un principio che permea il discorso di Draghi: “È evidente che l’Europa è al di sotto dei risultati che potrebbe raggiungere se agisse come una comunità”. Stati Uniti e Cina viaggiano spediti, perché riescono a mettere a terra strategie industriali che combinano “politiche fiscali per incoraggiare la produzione interna, politiche commerciali per penalizzare i comportamenti anticoncorrenziali, politiche economiche estere per garantire le catene di approvvigionamento”. L’Ue arranca a causa della “lentezza e disaggregazione del processo decisionale“. A Bruxelles, per approvare definitivamente una nuova legge ci vogliono in media 19 mesi.
Ma la lentezza è anche calcolo politico. E Draghi lo sa, e lancia un monito. “Dobbiamo abbandonare l’illusione che solo la procrastinazione possa preservare il consenso. In realtà, procrastinare ha prodotto solo una crescita più lenta, e di certo non ha ottenuto più consenso”. L’ex premier non ha passato l’ultimo anno a redigere un rapporto che indichi fumose ambizioni politiche, ma priorità da mettere sul campo il prima possibile. Altrimenti, possiamo scordarci l’Europa del benessere e delle libertà.