Bruxelles – Fumata nera, almeno per ora. I ministri degli Interni dei Ventisette non hanno messo sul tavolo alcuna proposta formale per modificare la direttiva Ue sui rimpatri, ma hanno solamente avuto delle discussioni esplorative sul tema. Tema che era sicuramente il più controverso tra quelli affrontati oggi (10 ottobre) in Lussemburgo, dove si è tenuto il Consiglio Giustizia e Affari interni, il quale servirà alla presidenza ungherese dell’Unione per preparare i lavori del Consiglio europeo in programma per la prossima settimana (17-18 ottobre).
A tenere banco oggi nel Granducato c’è stato soprattutto il punto relativo ai rimpatri dei migranti irregolari, con l’obiettivo di renderli più semplici e veloci e di aumentarne di conseguenza il numero. Le discussioni dei ministri si sono concentrate intorno alla controversa idea, avanzata da una quindicina di Stati membri (inclusa l’Italia), di creare degli “hotspot esterni” (cioè dei centri di detenzione) nei Paesi terzi vicini alle frontiere dell’Ue, dove processare le richieste d’asilo dei rifugiati. Insomma, di adottare per tutta l’Unione il “modello Albania” che sta sperimentando la premier Giorgia Meloni.
Durante la conferenza stampa al termine della riunione il padrone di casa, l’ungherese Sándor Pintér, ha posto così la questione: “I cattivi non possono stare da noi, devono essere rimpatriati”. E ha negato che quella degli hotspot fosse una proposta ungherese, di fatto sconfessando il suo stesso premier, Viktor Orbán, che l’aveva orgogliosamente difesa solo qualche giorno fa durante la plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo.
Un’idea di cui i ministri, oggi, hanno solo valutato la fattibilità in maniera preliminare per avviare la riflessione su quali soluzioni possano essere adottate nel rispetto del diritto internazionale e di quello comunitario, ma senza avanzare proposte specifiche su come emendare la normativa europea in materia, che risale al 2008. Un’opzione di lavoro, come l’hanno definita fonti diplomatiche. Ma che intanto è stata messa sul tavolo per future elaborazioni, soprattutto se i due Cpr italiani al di là dell’Adriatico dovessero dimostrarsi funzionali allo scopo per cui sono stati creati.
Tra i Ventisette, il consenso per un giro di vite sull’immigrazione irregolare è in continua espansione, il che non stupisce considerato il deciso spostamento a destra del baricentro politico nel Vecchio continente. Oltre ai 15 Paesi che hanno già chiesto alla Commissione di adottare “nuove misure” per “aumentare l’efficacia dei rimpatri” a maggio scorso – cioè non appena è stato adottato il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo – anche altri Stati membri stanno progressivamente indurendo la propria posizione. Il ministro degli Interni francese, il conservatore Bruno Retailleau, ha dichiarato arrivando alla riunione che Parigi “non esclude alcuna soluzione a priori”, aprendo alla ricerca di “soluzioni innovative” come quella degli hub di rimpatrio esterni dato che la normativa attuale renderebbe a suo dire “virtualmente impossibili” i rimpatri.
I ministri hanno discusso anche della necessità di moltiplicare gli sforzi diplomatici con i Paesi terzi al fine di stipulare accordi di rimpatrio in forza dei quali espellere gli esseri umani che ritengono indesiderati. Oppure per incentivare i Paesi di transito a trattenere i disperati che cercano di raggiungere l’Europa, prima che riescano a salpare per rischiare la vita attraverso il Mediterraneo. Insomma, una riedizione degli accordi stretti (bilateralmente o a livello Ue) con la Turchia e diversi Stati dell’arco nordafricano, dall’Egitto al Marocco. Retailleau si è anche spinto a suggerire di utilizzare una “diplomazia della migrazione”, subordinando cioè il rilascio dei visti ai cittadini di Paesi terzi con cui vigono accordi commerciali all’accoglienza, da parte degli Stati in questione, dei loro cittadini residenti irregolarmente sul suolo europeo.
Unica voce fuori dal coro sembrerebbe essere rimasta solo Madrid, guidata dal socialista Pedro Sánchez. Ieri (9 ottobre), il leader del Psoe ha difeso la necessità di una politica migratoria volta all’apertura e l’accoglienza, sia per la Spagna che per l’Ue, facilitando le vie d’accesso legali anziché perseguitando gli immigrati irregolari. E dal Lussemburgo, i rappresentanti del suo governo hanno ribadito l’importanza che i rimpatri siano condotti nel rispetto dei diritti fondamentali e delle norme del Patto sulla migrazione, che dovrebbero entrare in vigore al più tardi entro la fine del 2026 ma a cui la commissaria uscente agli Interni, Ylva Johansson, ha esortato a dare piena attuazione anche prima di quella data.
Quanto allo spazio Schengen, è stato osservato come la zona di libera circolazione sia “sottoposta a grande pressione migratoria”, nelle parole di Pintér, secondo cui tra le priorità dell’azione degli Stati membri ci dev’essere “la resilienza delle frontiere esterne” perché solo attraverso la “difesa e protezione” di queste ultime sarà possibile mantenere aperte quelle interne.
I rappresentanti di Bulgaria e Romania hanno aggiornato le loro controparti sui progressi compiuti a livello di confini aerei e marittimi, ma per la piena integrazione nel sistema Schengen bisognerà aspettare la decisione in sede di Coreper, che Pintér spera possa essere raggiunta sotto il turno di presidenza di Budapest. Del resto, ultimamente l’area di libero movimento non gode di buona salute. Il mese scorso la Germania ha reintrodotto controlli a tutte le sue frontiere terrestri, mentre a inizio ottobre anche la Danimarca ha annunciato che potrebbe presto aumentare le misure di sicurezza ai confini con Svezia e Germania. Questo porta ad otto il totale degli Stati Schengen che al momento hanno attivato dei controlli temporanei alle proprie frontiere: gli altri sono Austria, Francia, Italia, Norvegia, Slovenia e Svezia.