di Sergio Farris
L’otto agosto si è avuta notizia del fatto che la Corte di Cassazione ha ammesso il referendum avente ad oggetto la riforma della Costituzione. Il governo deve, entro sessanta giorni da allora, stabilire la data della consultazione popolare, che sarà indetta con decreto del presidente della Repubblica.
La riforma costituzionale che, irritualmente (dato che un’iniziativa riformatrice di tale portata non dovrebbe promanare dall’esecutivo) è stata promossa dal governo Renzi, non fa che consolidare un procedimento di inaridimento della democrazia iniziato parecchio tempo fa. Al di là dei proclami ottimistici quali «riforma che il paese attende da decenni» o «riforma per i prossimi trent’anni», è opportuno cercare di indagare la sottintesa neutralità, soprattutto sul piano sociale, dell’intento riformatore.
È stato enfatizzato da parte di insigni costituzionalisti che, in caso di conferma alla prova referendaria, l’esito della prevista riformulazione di 47 degli articoli contenuti nella parte II del testo costituzionale, in combinato disposto con la nuova legge elettorale, sarà un’alterazione dell’equilibrio fra i poteri dello Stato, con una delega di potere “in bianco” che andrà all’attuale governo (Renzi ha dichiarato di voler legare la sua carriera politica a questo referendum) ed a quelli che succederanno.
Ciò riconosciuto, a voler essere concreti ed espliciti, non si tratta delle riforma epocale che il paese stava aspettando. Né può, ad essa, venire associato carattere di neutralità. Gli obiettivi dichiarati sono la semplificazione della funzione legislativa e dei rapporti fra lo Stato e le regioni, la riduzione dei costi delle cariche pubbliche e la governabilità. Ebbene, due di questi obiettivi, anche a causa di svariate incoerenze nelle disposizioni testuali, paiono addirittura fuori dalla portata della riforma stessa.
Da più autorevoli fonti è stato infatti rilevato e scritto che: 1) il procedimento legislativo previsto con il superamento del bicameralismo paritario non sarà razionalizzato; il riparto delle competenze fra Stato e regioni, come contemplato dal novellato art. 117 della Costituzione, inasprirà i conflitti fra centro e periferia; 2) la diminuzione dei costi delle politica, se vi sarà, sarà irrisoria.
Per quanto riguarda l’obiettivo della governabilità, che negli intenti dei riformatori si punta ad ottenere riservando alla sola Camera dei deputati il voto di investitura fiduciaria e assicurando la presenza di una maggioranza certa nel medesimo ramo del Parlamento, va detto che la previsione della possibilità di votare la rimozione di un governo nel corso di una legislatura (che si mira a rendere più improbabile grazie a una delle disposizioni della nuova legge elettorale, la quale consente la blindatura della maggioranza alla Camera con la cooptazione dei deputati) non è un ostacolo alla democrazia; anzi.
Ma il fatto saliente è che, in ogni caso, i sunnominati obiettivi della riforma non raffigurano i veri problemi del paese. Perché i veri problemi del paese, come sopra accennato, possono essere semmai ricondotti al progressivo svuotamento della democrazia, che questa riforma non fa che accentuare rendendo il governo del paese sempre più permeabile agli interessi di una “governance” sovranazionale (non eletta) già troppo condizionante. Si pensi alla produzione normativa della Commissione europea, la stessa istituzione le cui scelte non fanno che rivelarsi pesantemente ipotecate dagli interessi del mondo finanziario. Oppure si pensi alle continue (e non a caso, monodirezionali) “raccomandazioni” che pervengono da enti quali la Banca centrale europea o il Fondo monetario internazionale (proprio le istituzioni che hanno caldamente consigliato a Renzi il varo del “Jobs Act”). Si pensi all’esplicito invito, rivolto addirittura da un colosso finanziario privato quale la JP Morgan, a espungere dalla nostra Costituzione gli elementi di socialismo; o, proseguendo, si pensi all’esplicito appoggio alla riforma Renzi-Boschi da parte di enti “terzi” come le agenzie di rating finanziario (le stesse che, con le loro valutazioni, condizionano i flussi dei capitali). Infine si pensi al TTIP, l’approvando trattato transatlantico di libero scambio che prevede la facoltà, per le società multinazionali, di adire speciali tribunali al fine di far abrogare norme nazionali ritenute di intralcio rispetto ai propri profitti.
Il rafforzamento dell’organo esecutivo in nome della governabilità, declinata dalla riforma nel senso di una preponderanza del potere esecutivo nei confronti degli altri poteri costituzionali, è non a caso il vero perno dell’azione riformatrice.
Ed è ciò che i poteri forti (soprattutto quelli stanziati a Washington, Bruxelles e Francoforte, oltre alla domestica Confindustria) attendono. Meglio avere a che fare con uno stabile esecutore di (contro)riforme eterodirette, piuttosto che dovere di volta in volta entrare in sintonia con un nuovo interlocutore. Il che, però, purtroppo non coincide con ciò che il paese e la maggior parte dei suoi cittadini attendono quale evento risolutore dei loro problemi.
Potrebbe essere eccepito che questi poteri, quando lo desiderano, vedasi come detto con l’approvazione del “Jobs Act” o con l’espresso favore governativo per l’accennato trattato noto come TTIP, sono in grado di ottenere le (contro)riforme funzionali ai propri interessi pur senza toccare direttamente i diritti sanciti nella prima parte della Costituzione.
Tuttavia, va intanto osservato che, con la riforma prossimamente sottoposta a respingimento o conferma, potrebbe venire affermandosi la prassi secondo la quale un qualunque governo potrà procedere a rivedere, anche radicalmente, la carta fondamentale (che diverrà così una sorta di “oggetto” nella disponibilità dell’esecutivo di turno); e, in secondo luogo, va rimarcato che si potrà sempre sostenere che l’orientamento del governo deve prevalere (si va infatti a modificare profondamente gli equilibri costituzionali) anche rispetto all’indirizzo “socialdemocratico” contenuto nella prima parte della Costituzione, specie in una prolungata fase storica caratterizzata da una continua emergenza economica e da una ormai radicata insicurezza derivante alla disattesa promessa di un armonico mercato globalizzato.
È dunque di scarsa presa l’illusoria considerazione che la riforma investe solo la seconda parte del documento costituzionale, ovvero l’organizzazione dello Stato. In assenza di una rappresentanza politica genuinamente democratica, vi sarà sempre un governo pronto ad affermare: bisogna attirare capitali, ed è solo il mercato a poterli fornire. Non c’è alternativa, ergo, per poter attirare capitali bisogna eliminare i diritti. A cominciare dai rapporti economici di cui al titolo III della Costituzione, e ciò perché l’ambiente deve essere favorevole alla profittabilità del settore finanziario e i mercati devono essere massimamente efficienti. Poi, bisognerà continuare a privatizzare quanto di “pubblico” è rimasto. In breve, il destino della prima parte della Costituzione sarà segnato.
Quindi, lungi da un impegno orientato alla concreta applicazione dei principi sociali collocati alla base della carta fondamentale, si rischia seriamente, con la riforma Renzi-Boschi, di mettere in opera un processo il quale finirà con l’eliminazione (nel nome di JP Morgan) perfino dell’ancoraggio costituzionale formale che, chissà, magari un giorno tornasse in auge un movimento democratico veramente rappresentativo degli interessi popolari, potrebbe essere rivendicato e fatto valere.
Obliterazione dei corpi sociali intermedi e partiti ridotti alla funzione di strumenti volti soltanto a favorire carriere e occupazione di posti. Legge formale sempre più invadente e sovraordinata rispetto alla contrattazione delle condizioni di lavoro. Così è ridotta oggi la democrazia. Un movimento per ridemocratizzare il paese deve cominciare dal rigetto popolare della riforma costituzionale dell’attuale governo, al quale, contestualmente, va accompagnata una necessaria battaglia per democratizzare l’Europa (democratizzare, nel caso di quest’ultima, perché l’Europa unita non è sorta come progetto democratico, ma come progetto tecnocratico che prometteva, illusoriamente, uno sviluppo dipendente dalla libera circolazione dei capitali).
Un paese sempre più diseguale e sempre più espropriato, perfino dei beni comuni. Mercati contro diritti sociali. Austerità ad oltranza (ricordiamo con quale corrività politica e subalternità ai mercati è stato modificato, nel 2012, senza un vero dibattito nel paese e nelle stesse aule parlamentari, l’art. 81 della Costituzione introducendovi il pareggio di bilancio) contro diritto democratico del lavoro.
Merito individuale, di concezione elitario-liberale, contro diritti uguali per tutti. E presunta efficienza regolatrice del mercato in luogo del criterio di efficacia che dovrebbe essere posto a fondamento delle politiche pubbliche al servizio dei cittadini. Sono queste le poste in gioco con il referendum costituzionale.