Bruxelles – Con l’incendio del campo profughi di Lipa e la crisi umanitaria in Bosnia il vaso di Pandora è stato scoperchiato. E adesso, una alla volta, escono tutte le violazioni dei diritti umani lungo la rotta balcanica. L’ultima in ordine cronologico è quella di cui si è macchiata l’Italia alla frontiera con la Slovenia attraverso le procedure di riammissione: “La prassi adottata dal ministero dell’Interno in attuazione dell’accordo bilaterale con la Slovenia è illegittima sotto molteplici profili”. A metterlo nero su bianco è stato il Tribunale ordinario di Roma (Sezione diritti della persona e immigrazione), in un’ordinanza datata 18 gennaio 2021.
È il primo pronunciamento di questo tipo e apre scenari allarmanti: “L’accordo Italia-Slovenia è da considerarsi in palese violazione delle norme internazionali, europee e interne“, si legge nell’ordinanza emessa dalla giudice Silvia Albano, che ha accolto il ricorso presentato dalle avvocate Anna Brambilla e Caterina Bove della rete dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI). L’accordo risale al 1996, ai tempi delle guerre nell’ex-Jugoslavia, e finora ha permesso alle forze dell’ordine italiane di riammettere automaticamente in Slovenia qualsiasi migrante privo di richiesta di protezione internazionale rintracciato sul confine sloveno.
In un passaggio della risposta all’interrogazione parlamentare dell’onorevole Riccardo Magi (24 luglio 2020), il Viminale ha ammesso di aver autorizzato le forze dell’ordine a riammettere queste persone “anche qualora sia manifestata l’intenzione di richiedere protezione internazionale”. In questo modo è stato impedito di presentare richiesta di asilo senza provvedimenti formali e notificati, escludendo di rimando l’eventuale impugnazione. Una palese violazione dello Stato di diritto.
Le motivazioni
Il comportamento dell’Italia viola contemporaneamente la legge italiana, la Costituzione e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Prima di tutto, “la riammissione informale non può mai essere applicata nei confronti di un richiedente asilo senza nemmeno provvedere a raccogliere la sua domanda”. Di conseguenza questa prassi va contro l’articolo 10 della Costituzione, considerato il fatto che “nega il diritto di asilo senza alcun provvedimento amministrativo”. Infine, viola il divieto alle espulsioni collettive previsto dalla Carta del diritti dell’UE, impedendo così “l’esame individuale delle singole posizioni”.
“Lo Stato italiano non avrebbe dovuto dare corso ai respingimenti informali in mancanza di garanzie sull’effettivo trattamento che gli stranieri avrebbero ricevuto negli altri Paesi”, ha motivato la giudice Albano. “Primi fra tutti il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti e quello di proporre domanda di protezione internazionale”.

Secondo la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, “la Slovenia come la Croazia sono considerati Paesi sicuri sul piano del rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali”, come aveva dichiarato nel corso del question time alla Camera il 13 gennaio. Per la giudice, tuttavia, questa risposta non è sufficiente. Dalle risoluzioni dell’UNHCR, dai report delle ONG che operano sul confine bosniaco-croato, dalle inchieste giornalistiche e dalla lettera del 7 dicembre della commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa sulla situazione dei migranti in Bosnia, Dunja Mijatović, “il ministero era in condizioni di sapere che la riammissione in Slovenia avrebbe comportato a sua volta la riammissione informale in Croazia e il respingimento in Bosnia“, oltre al fatto che “i migranti sarebbero stati soggetti ai trattamenti inumani e alle vere e proprie torture inflitte dalla polizia croata”.
L’ordinanza menziona non solo la catena di riammissioni (da maggio 2020, l’Italia ne ha operate 1.300 e lo stesso ha fatto la Slovenia verso la Croazia, per un totale di circa 10 mila), ma anche la pratica dei pushback, i respingimenti illegali operati da un Paese UE alla frontiera esterna per impedire a un migrante l’accesso al territorio e la protezione internazionale. Dal maggio 2019 a oggi, 22.550 persone sono state vittime delle violenze e delle pratiche di tortura della polizia croata (dati Danish Refugee Council). Per il possibile mancato controllo del “meccanismo di monitoraggio” dei diritti umani in Croazia, la mediatrice europea, Emily O’Reilly, ha avviato un’indagine contro la Commissione UE lo scorso 10 novembre.
Il caso
Il ricorso presentato dalle avvocate Brambilla e Bove è partito dal caso di un migrante pakistano arrivato a Trieste nel luglio 2020. L’uomo aveva viaggiato lungo tutta la rotta balcanica ed era quasi riuscito a “vincere” The Game (come è chiamato comunemente il tentativo di superare le tre frontiere che dalla Bosnia si frappongono alla stazione di Trieste, senza essere intercettati dalle polizie di frontiera). Arrivato sul territorio italiano, gli era stata negata la possibilità di presentare richiesta di protezione internazionale: stava ricevendo cure mediche da parte di un gruppo di volontari, quando è stato avvicinato da agenti in borghese che hanno riaccompagnato lui e altri connazionali in una stazione di polizia.
Dopo essere stati ammanettati e posti i telefoni sotto sequestro, i cittadini pakistani “sono stati caricati su un furgone e portati in una zona collinare e intimati, sotto la minaccia di bastoni, di correre dritti davanti a loro, dando il tempo della conta fino a cinque”, si legge nell’ordinanza. Successivamente sono stati fermati dagli agenti sloveni: nuovamente arrestati, caricati su un furgone e chiusi in una stanza per la notte senza cibo e acqua.

L’ultimo passaggio è stata la presa in consegna da parte della polizia croata: “Qui vengono picchiati dagli agenti con manganelli avvolti dal filo spinato e presi a calci sulla schiena”, prima di essere trasportati al confine con la Bosnia. “Gli agenti cominciano un conto alla rovescia, per poi colpirli spruzzandogli addosso spray al peperoncino e aizzando il pastore tedesco che era con loro”, continua il testo dell’ordinanza nella descrizione delle torture.
La riammissione a catena, iniziata in Italia, si doveva concludere nel campo di tende d’emergenza di Lipa (lo stesso che è andato a fuoco il 23 dicembre, giorno in cui era stata programmata la chiusura per condizioni inadeguate all’inverno). Nell’estate dello scorso anno però il campo era al completo, così l’uomo finì per tornare a dormire in un riparo di fortuna nella capitale Sarajevo, dove The Game era iniziato.
Grazie all’ordinanza del Tribunale di Roma, il cittadino pachistano potrà ora fare ingresso in Italia per poter presentare la richiesta di asilo, “riaffermando l’importanza dell’articolo 10 della nostra Costituzione e dunque del diritto di asilo”, spiega Brambilla. La vera prospettiva è che questo non sia un caso isolato, ma che ci sia “un cambio di atteggiamento delle autorità italiane” e che aumenti “l’attenzione nei confronti delle frontiere interne dell’Unione Europea che sembrano esistere ancora, ma solo per alcuni”: i migranti senza diritti.