Bruxelles – La filiera agroindustriale della canapa italiana chiama in causa Bruxelles. Il governo di Giorgia Meloni ha inserito nel disegno di legge Sicurezza – ora in esame alla Camera – un emendamento che vieterebbe la produzione e il commercio delle infiorescenze di canapa e derivati, anche con un contenuto di THC inferiore allo 0,2 per cento. Ma secondo diverse associazioni di settore, c’è il rischio di una violazione delle norme europee sulla libera concorrenza e circolazione delle merci.
L’eventuale approvazione del Ddl Sicurezza non andrebbe a colpire solo i piccoli rivenditori di CBD – canapa sativa L con basso contenuto di THC che non produce effetti psicotropi -, ma anche filiere agroindustriali di eccellenza come la cosmesi, il florovivaismo, gli integratori alimentari, l’erboristeria. Un settore da 500 milioni di fatturato su base annua, con più di 15 mila occupati in tutta Italia, che si è sviluppato negli ultimi anni nonostante i frequenti attacchi della politica. Definita da Federcanapa “un grottesco giro di vite”, per Cia-Agricoltori Italiani la mossa del governo Meloni è “inaccettabile”, e rischia di portare alla chiusura “migliaia di aziende agricole di un comparto in continua espansione, con tassi di crescita importanti e un forte protagonismo, soprattutto tra l’imprenditoria giovanile“. Agricoltori che – sottolinea il presidente di Cia, Cristiano Fini, “nel corso degli anni hanno investito in una cultura legale e ad alto valore aggiunto”.
Le associazioni Canapa Sativa Italia, Imprenditori Canapa Italiana, Resilienza Italia Onlus e Sardinia Cannabis hanno invocato l’intervento di Bruxelles sulla questione. In una lettera recapitata alla Commissione europea, denunciano la possibile violazione di diverse normative comunitarie, tra cui la libera circolazione delle merci e la libera concorrenza, e l’incompatibilità con la Politica Agricola Comune dell’Ue. E chiedono alla Commissione di emettere un parere circostanziato al riguardo.
In sostanza, l’emendamento del governo italiano, che introduce restrizioni all’importazione e al commercio delle infiorescenze di canapa e dei loro derivati, sarebbe in contrasto con gli Articoli 34 e 36 del Trattato sul funzionamento dell’Ue. Quelli che definiscono il principio di libera circolazione delle merci. A supporto di questa tesi, esiste anche una sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue, del 19 novembre 2020, che stabilì che il CBD non può essere considerato uno stupefacente e che la sua commercializzazione non può essere vietata se prodotto legalmente in un altro Stato membro dell’Ue. Come se non bastasse, in una sentenza del febbraio dello scorso anno, il TAR del Lazio aveva annullato il decreto interministeriale “officinali” del 18 maggio 2022, che aveva posto la cannabis sativa sotto un regime speciale, limitando la coltivazione agricola e permettendo la commercializzazione solo dei semi e derivati. Proprio perché tali restrizioni erano in contrasto con gli articoli 34 e 36 del Tfue.
Gli agricoltori italiani della filiera suggeriscono che – se approvato – l’emendamento violerebbe anche l’articolo 101 de Tfue, limitando di fatto l’accesso libero al mercato. E denunciano il mancato rispetto del principio di proporzionalità: “L’introduzione di un divieto così ampio non appare proporzionata all’obiettivo di tutela della salute pubblica, soprattutto alla luce delle evidenze scientifiche che non indicano rischi significativi per la salute derivanti dall’uso delle infiorescenze di canapa con un contenuto di THC inferiore ai limiti di legge”, si legge ancora nella lettera.
A livello europeo, le imprese che trasformano, producono e commercializzano la canapa industriale sono rappresentate dalla European Industrial Hemp Association (Ehia). Raggiunta da Eunews, la sua direttrice amministrativa, Lorenza Romanese, pone una “domanda sul futuro”: nel momento in cui l’estratto di canapa sarà approvato dall’Autorità europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) come complemento alimentare, “circolerà in tutta Europa tranne che in Italia?”. Per Romanese l’autogol è doppio: “Oggi andiamo a bloccare settori che esistono, svantaggiando imprese italiane a favore di imprese di altri Paesi membri”, e “in un futuro penalizzeremo nuovamente l’Italia in un settore dove dovrebbe essere leader, quello del cibo e dei complementi alimentari“.
L’inghippo nasce – spiega ancora Romanese – dall’interpretazione giuridica che si dà della Convenzione unica sugli Stupefacenti del 1961: a livello Ue, “tre quarti dei Paesi” la interpretano oggi in modo da permettere lo sviluppo di un settore industriale derivante dalla canapa, mentre “le più restrittive, Spagna e Italia”, vedono nel trattato internazionale la conferma che il fiore di canapa sativa è narcotico e quindi non è permesso. È questa la chiave per cui il governo italiano può – dal suo punto di vista – permettersi di farne una questione di pubblica sicurezza e restringere il mercato.
“La violazione di per sé non è tanto legata alla normativa, che ancora non è stata approvata, ma al mancato coinvolgimento delle istituzioni europee”, conferma a Eunews il presidente di CSI, Mattia Cusani. Perché l’emendamento, inserito non a caso nel Ddl sicurezza, è stato legato dal governo a esigenze di tutela della salute pubblica, ma impatta sulla libera circolazione delle merci nel mercato unico europeo. In questi casi – spiega Cusani – i Paesi membri devono notificare la normativa al sistema di informazione sulle regolamentazioni tecniche (Tris), il meccanismo che si occupa di concertare eventuale aggiustamenti per evitare violazioni del diritto comunitario. Ad oggi, sul sito del Tris non è segnalata alcuna notifica da parte del governo italiano su questo punto.
Il presidente di CSI, che per primo ha voluto rivolgersi a Bruxelles, conosce bene anche i possibili rimedi interni: sollevare una questione di legittimità costituzionale, o arrivare alla disapplicazione della normativa – come già successo con la sentenza del Tar del Lazio del 2023. Ma chiarisce un punto: “Noi non vogliamo avere ragione, vorremmo solo che le cose venissero discusse senza ideologie e pregiudizi, ma con le istituzioni e le parti sociali, per ottenere le decisioni più sagge possibili, perché si parla della vita e del lavoro di oltre 15 mila persone”. Ma spesso, in tempo di campagna elettorale, le decisioni non sono “le più sagge possibili”.