Bruxelles – Il 10 settembre potrebbe diventare la data in cui l’eredità di Margrethe Vestager, commissaria uscente alla Concorrenza, è stata consegnata alla storia – o quantomeno ai manuali di diritto societario. In due sentenze separate ma ugualmente cruciali, infatti, la Corte di giustizia dell’Ue (Cgue) ha dato ragione alla Commissione europea, e nello specifico al suo “falco” danese, nelle battaglie legali contro due colossi del tech statunitense: Apple e Google.
I verdetti emessi oggi dalla Corte, che ha sede a Lussemburgo, sanciscono sostanzialmente una conferma dell’operato di Vestager, che per dieci anni (cioè due mandati consecutivi) è stata a capo di Dg Comp, il direttorato generale dell’esecutivo comunitario per la concorrenza. La prima sentenza stabilisce che Google ha violato le leggi antitrust dell’Unione (e che deve pertanto pagare una multa da 2,4 miliardi di euro), mentre la seconda obbliga Apple a restituire 13 miliardi di tasse arretrate alle casse statali irlandesi.
“Una vittoria per la Commissione europea, per le condizioni di parità e per la giustizia fiscale“, nelle parole della diretta interessata, che ha commentato i verdetti in una conferenza stampa al Berlaymont. Una vittoria che va in qualche modo a controbilanciare altre sentenze della stessa Corte che in anni recenti hanno invece rappresentato delle sconfitte per la Commissione, come ad esempio quelle contro Amazon ed Engie. La commissaria danese ha anche rivendicato come un successo dell’attivismo dell’esecutivo comunitario le riforme dei regimi fiscali societari adottate negli ultimi anni da vari Stati membri (come appunto l’Irlanda, il Lussemburgo e Cipro).
Nel primo caso, si tratta di una vera e propria conferma da parte della Cgue della multa già comminata dalla Commissione nel 2017, quando Google era stata accusata di abuso della propria posizione dominante: in sostanza, dava priorità ai propri servizi di comparazione prodotti nelle ricerche per lo shopping online rispetto ai concorrenti. L’azienda aveva poi impugnato la sentenza nel 2021, ma martedì (10 settembre) i giudici Ue hanno rigettato il ricorso.
La vicenda di Apple è invece più contorta e prende la forma del classico ribaltone. La controversia legale è iniziata nel 2016, quando Bruxelles ha accusato il colosso del big tech californiano di aver stretto un accordo eccessivamente vantaggioso (per usare un eufemismo) con le autorità dell’Irlanda, Paese dalla fiscalità generosa dove l’azienda ha la sua sede europea insieme a tante altre. Secondo l’accusa, due sovvenzioni da parte di Dublino nel 1991 e nel 2007 (che Apple sostiene siano imponibili nella giurisdizione statunitense e non in quella dell’Ue) si configurerebbero come aiuti di Stato indebiti. In questo modo, la multinazionale era arrivata a pagare qualcosa come lo 0,05 per cento di tasse all’erario irlandese. Nel 2020, l’azienda aveva vinto in un tribunale di grado inferiore ottenendo l’annullamento dell’ingiunzione di pagamento. Ma l’esecutivo comunitario aveva avviato un ricorso che si è concluso con la sentenza di oggi, con la quale la Cgue ha fatto piombare su Apple una maxi-stangata da 13 miliardi.
Soprattutto quest’ultima sentenza è stata letta in Europa come una sostanziale promozione della linea dura adottata da Vestager contro le grandi multinazionali del tech e, in particolare, della sua interpretazione delle norme Ue sugli aiuti di Stato (un approccio, quello della commissaria danese, considerato da alcuni come creativo o addirittura disinvolto). I due casi insieme – pur riguardando ambiti diversi – hanno contribuito ad affermare il braccio antitrust di Bruxelles come il più aggressivo “cane da guardia” del settore tecnologico a livello globale: da allora, altri Paesi hanno intensificato il controllo delle pratiche commerciali del settore, soprattutto negli Stati Uniti.
Tuttavia, i procedimenti hanno anche evidenziato le lentezze e farraginosità del sistema giuridico dell’Ue, sollevando interrogativi sulla capacità delle autorità di tenere il passo con la rapida evoluzione del settore tecnologico e digitale. Google, ad esempio, si trova attualmente in fase di appello in altri due casi antitrust: uno risalente al 2018 (in cui l’azienda è stata multata per 4,34 miliardi) e l’altro al 2019 (con una sanzione di quasi 1,5 miliardi). Anche per ovviare a queste problematiche, l’Unione ha approvato nel 2022 il pacchetto legislativo chiamato Digital markets act (Dma), che conferisce ai regolatori poteri più ampi per costringere le grandi piattaforme digitali a modificare le proprie pratiche commerciali (e metterle in regola con le norme europee), oppure per multarle se non si conformano.
Il nuovo presidente della sottocommissione per le Questioni fiscali dell’Eurocamera (nonché capodelegazione dei pentastellati a Strasburgo), Pasquale Tridico, ha commentato positivamente la decisione della Corte che riguarda Apple, che ha definito “storica”: “I vantaggi fiscali concessi alle multinazionali sono di fatto considerati un’elusione fiscale. Questa pratica è incompatibile con il mercato interno e drena risorse preziose dai fondi pubblici necessari per l’istruzione, la sanità, la lotta alla povertà e il sostegno ai settori industriali in crisi”, ha dichiarato, esortando la futura Commissione von der Leyen a proporre “una legislazione che vieti tutte le forme di elusione fiscale e i vantaggi competitivi per i giganti tecnologici e le grandi imprese all’interno dell’Unione europea”.