Bruxelles – Non serve una prova di intervento chirurgico per poter aggiornare e correggere le informazioni personali relative al genere. Lo stabilisce la Corte di giustizia dell’Ue, chiamata a pronunciarsi su una richiedente asilo iraniana in Ungheria, biologicamente femmina al momento della nascita, e come tale registrata nel Paese Ue di arrivo nonostante la persona rivendichi di essere di genere maschile. Le richieste di modifica avanzate dalla persona interessata non sono state ascoltate, e i giudici ungheresi hanno chiesto lumi a Lussemburgo, dove i giudici della Corte europea chiariscono che non serve un certificato medico di un’avvenita operazione di modificazione delle caratteristiche sessuali né una cartella clinica.
Quello che conta ai fini di identificazione della persona, stabilisce la Corte di giustizia dell’Ue con sentenza, non è l’identità biologica al momento della nascita, bensì “l’identità di genere vissuta da tale persona”. Da qui il principio per cui “uno Stato membro non può invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della trans-identità per ostacolare l’esercizio del diritto di rettifica“.
La storia personale della persona richiedente siriana serve inoltre a fare chiarezza sul Regolamento dell’Ue sul dati personali (più noto sotto la sigla ‘Gdpr’), in vigore dal 25 maggio 2018. Secondo di giudici di Lussemburgo il regolamento in questione “deve essere interpretato nel senso che esso impone a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti, ai sensi di tale regolamento”. Perché, da un punto di vista di diritto, gli Stati devono tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, rispettare il diritto dell’Unione, incluso il Gdpr.