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    Home » Editoriali » Europa: gigante commerciale inascoltato in politica estera

    Europa: gigante commerciale inascoltato in politica estera

    Lorenzo Robustelli</a> <a class="social twitter" href="https://twitter.com/@LRobustelli" target="_blank">@LRobustelli</a> di Lorenzo Robustelli @LRobustelli
    9 Gennaio 2020
    in Editoriali
    L'alto rappresentante UE per la politica Estera e di Sicurezza Josep Borrell

    L'alto rappresentante UE per la politica Estera e di Sicurezza Josep Borrell

    “La nostra voce è ascoltata”. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, parlando ieri della crisi tra Iran e USA si è mostrata convinta che il Gruppo dei 28 (presto 27) abbia un ruolo importante a livello internazionale, anche perché “ha molto da offrire”. Sulla prima cosa ha torto nella maggior parte dei casi, ma sulla seconda potrebbe aver ragione. Il problema che che senza la prima, la seconda è molto depotenziata.

    Un esempio è la vicenda dell’invasione russa della Crimea, contro la quale l’Unione alzò la voce, si batté con forza, ma perse, e poi cercò una mediazione negli Accordi di Minsk, regolarmente non rispettati da Mosca, e per i quali l’UE ha posto sanzioni i cui effetti, secondo vari studi (ISPI, ICE ad esempio) sembrano aver colpito più l’economia europea (per via delle ritorsioni) che quella russa.

    Però si può affermare che l’Ucraina è tornata nell’orbita occidentale (cosa che non era prima) e la democrazia lì si è consolidata, pur con forti toni populistici. Le due cose sono avvenute grazie agli interventi dell’Unione. Quindi la vicenda Ucraina non è in realtà una sconfitta “totale” ed è un esempio di come l’UE fa politica estera: attrae, ha tanti strumenti di sostegno sia alle zone di conflitto, sia al governo (aiuti diretti, diplomazia e sostegno energetico, commercio, riforme istituzionali che aiutano lo sviluppo economico), ma diplomaticamente non è riuscita a modificare il comportamento della Russia né a impedire o “cancellare” l’annessione della Crimea.

    Quel che accade in Libia sembra essere una conferma di un’Unione polo di attrazione che però fatica ad imporsi. Al di là di quanto produrrà l’accordo di spartizione tra Russia (di nuovo) e Turchia considerando poi le lotte interne tra le tribù locali, l’Unione Europea non è riuscita a giocare un ruolo in un territorio che è alle sue porte, nonostante la sua potenza commerciale, e dove non è, in questo momento, un protagonista. Certo sulla Libia i problemi sono almeno due: Francia e Italia, che hanno maggiormente influenzato la politica europea nel Paese, e sono poi state disgraziatamente divise sulla strategia. La paura di flussi migratori ha impedito un approccio più strategico verso il paese. La Libia è un vero fallimento europeo.

    La domanda che ci si deve porre, a nostro giudizio, è però se questi obiettivi fallimenti sono colpa delle varie dirigenze dell’Unione europea che si sono succedute nel tempo oppure sono il frutto di ciò che è l’Unione europea. Chi nasce tondo non può morir quadrato, sostiene un noto adagio popolare, che però si applica bene al nostro caso.

    La questione vera è che l’Unione non è nata per essere un attore internazionale in politica estera, ma per essere un colosso commerciale. Si è partiti dal carbone e dall’acciaio, per poi arrivare alla ben più grande conquista del Mercato unico, che è il più ricco del Mondo, dove gli scambi vanno avanti con grande facilità, dove si è creata ricchezza vera e si è riusciti a proteggere l’insieme della comunità dalle crisi dei singoli.

    All’aspetto commerciale si è poi aggiunto quello della protezione dei diritti umani, delle minoranze, della cultura. Tutto però gira attorno alla creazione e al mantenimento di un grande mercato e di una potenza commerciale. Sono state conquiste vere, che hanno moltiplicato la forza economica e commerciale dei paesi dell’Unione, anche se errori ne sono stati fatti, normalmente pagati dai più deboli.

    La politica estera invece non è mai stata un obiettivo dell’Unione. Gli Stati non l’hanno mai delegata a Bruxelles, e solo da dieci anni è nata la figura dell’Alto rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza. Figura ibrida, poco chiara, guidata prima dalla britannica Catherine Ashton, poi dall’italiana Federica Mogherini, ed ora dallo spagnolo Josep Borrell. Con tutta la passione che possiamo avere per gli sforzi prodotti da queste due donne (l’uomo è appena arrivato) il risultato politico del loro lavoro è stato scarso, tranne una cosa, di enorme importanza, negoziata da Ashton e poi finalizzata e difesa strenuamente da Mogherini: il cosiddetto Accordo sul nucleare iraniano. Non è stato, è evidente, un prodotto solo europeo, ma probabilmente senza lo sforzo di mediazione europeo quell’accordo non sarebbe arrivato. E’ però arrivato Donald Trump, e quell’intesa così preziosa è diventata probabilmente carta straccia, e l’Unione ha dovuto alzare le mani, anche se fino all’altro giorno è rimasta unito nella difesa dell’accordo, e forse se l’Iran non si è ritirato fino a ieri è anche grazie alla diplomazia europea.

    Bruxelles continua ad alzare la voce, è vero, ma lo fanno i membri della Commissione, mentre gli Stati sono molto più silenti e pieni di distinguo. Perché i poteri veri sulla politica estera e sulla sicurezza gli Stati se li sono tenuti gelosamente in casa, nulla hanno delegato, e dunque che poteri potrebbero esercitare a Bruxelles?

    La questione è più complicata di questo. La politica estera e di sicurezza è connaturata, è parte caratteristica di uno Stato. Ogni nazione deve pensare a proteggere i propri cittadini e le proprie imprese, è aspetto fondante della nascita di un’entità statutale. Uno Stato può decidere di cambiare dei confini in accordo con un altro (è appena successo tra Belgio e Paesi Bassi) può decidere di far entrare o meno una persona, può decidere da che parte stare in un conflitto esterno o di partecipare a un conflitto. Tutti elementi che incidono direttamente sulla vita dei suoi cittadini. Dunque non è “gelosia” per i propri poteri che gli Stati europei esercitano non trasferendo quelli di questo tipo all’Unione, ma è proprio la comune visone dell’Unione che andrebbe profondamente e strutturalmente mutata per farlo.

    Non è una questione di avere o meno un esercito europeo, quello viene dopo. I Paesi dell’Unione hanno eserciti, anche molto forti e se necessario potrebbero dispiegarli quando vogliono (e l’hanno fatto) in ambito Ue o in ambito Nato. La questione è: l’Unione deve essere solo un colosso commerciale, politico, di protezione dei diritti o anche una potenza internazionale, per giungere alla quale, in sostanza, c’è una sola via: gli Stati Uniti d’Europa, cioè una nazione sola, che difenda interessi unici di centinaia di milioni di cittadini, superando gli Stati nazionali. C’è poco da dire o polemizzare, questa è la scelta, il “cambio di paradigma”, se si vuole un’Europa che come tale sia vero attore internazionale. La sola potenza commerciale non basta, lo si è dimostrato.

    Tags: alto rappresentante UeIranlibyapolitca esteraursula von der leyenusa

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