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    Home » Editoriali » Il capitalismo sotto accusa cerca una riscossa green

    Il capitalismo sotto accusa cerca una riscossa green

    Virgilio Chelli di Virgilio Chelli
    17 Gennaio 2020
    in Editoriali

    Il sistema del capitalismo era stato il grande vincitore nel mondo uscito dalla caduta del Muro di Berlino e dal collasso dell’Impero Sovietico ad opera del presidente Ronald Reagan e del papa-imperatore Giovanni Paolo II. Al punto che l’unica superpotenza ancora nominalmente socialista aveva dovuto convertirsi a un ‘capitalismo senza democrazia’ entrando nell’organizzazione (capitalista) mondiale del commercio guadagnando così il passaporto per giocarsi alla grande la partita della globalizzazione (capitalista), portandosi dietro i satelliti dell’area a cominciare dal Vietnam. Allo stesso modo, ci sono pochi dubbi sul fatto che lo stesso capitalismo sia uscito perlomeno un po’ ammaccato dalla Grande Crisi del 2008-2009 scatenata dalla bolla dei mutui americani e dal crac della Lehman Brothers. La cura di 8 anni di Obama non è bastata a fargli riguadagnare reputazione e nemmeno tutto sommato il primo mandato di Donald Trump, nonostante un’economia americana a tutt’oggi nel suo più lungo ciclo espansivo di sempre e nonostante Wall Street continui a infilare un record dietro l’altro.

    Ed è proprio in patria, gli Stati Uniti d’America, che il capitalismo sembra aver sofferto il suo maggior danno reputazionale, nonostante appunto un’economia che scoppia di salute e una disoccupazione ai minimi da 50 anni. Un sondaggio Gallup condotto a fine 2019 e finito su tutti i giornali e le tv ha mostrato che tra i giovani americani tra i 18 e i 29 anni il 51% delle preferenze vadano al socialismo e solo il 45% al capitalismo, con un ribaltone di ben 12 punti percentuali rispetto a solo 2 anni prima. Solo nel 2010, nell’immediato dopo-crisi, la visione positiva sul capitalismo era dichiarata da quasi il 70% nella stessa fascia di età. L’appeal del socialismo tra i giovani si fa sentire prepotentemente nelle primarie democratiche per la corsa alla nomination dello sfidante di Trump quest’estate, regalando una grande popolarità all’anziano Bernie Sanders, dichiaratamente socialista, e premiando in misura minore anche Elizabeth Warren, il cui gadget elettorale più venduto è la famosa tassa per raccogliere le lacrime dei miliardari, se e quando sarà eletta presidente.

    Il revival dell’anticapitalismo non è certamente un fenomeno maggioritario in un’America che si prepara con ogni probabilità a ri-votare per Donald Trump, a meno che non gli capiti tra capo e collo qualche sconquasso sui mercati che spinga l’economia in recessione. Ma è sicuramente un fenomeno nuovo, che ha molte origini. Le principali sembrano soprattutto tre. La prima è che la lunghissima ripresa economica partita nel 2009 non è stata uguale per tutti, anzi è stata molto diseguale e ha premiato molto di più chi già aveva, facendo salire a dismisura i prezzi degli asset soprattutto finanziari, e molto meno chi non aveva, magari solo per ragioni anagrafiche, dovendo iniziare un percorso di inserimento nel lavoro molto più incerto e meno prevedibile che in passato.

    La seconda è sicuramente la violenta distruzione, che non ha ancora dispiegato i suoi effetti costruttivi, causata dalla rivoluzione digitale e tecnologica, che ha decimato moltissime vecchie figure professionali senza sostituirle con nuove altrettanto affidabili e promettenti. E’ un fenomeno che va a braccetto con la nuova fase della globalizzazione, fatta più di competizione – tra paesi ma anche tra individui della più varia appartenenza goegrafica – che di dialogo e cooperazione. La terza origine è la più dirompente, almeno dal punto di vista della percezione e della risonanza mediatica, e la potremmo definire ‘effetto Greta’. L’ingordigia capitalista è finita quasi senza accorgersene sul banco degli imputati del cambiamento climatico che minaccerebbe il pianeta, mentre il ‘gretismo’ insinua anche se non esplicitamente che un’economia e una società più ‘governate’ e meno lasciate alle forze del mercato aiuterebbe a organizzare meglio la difesa della Terra dalla distruzione per mano dell’uomo.

    Ovviamente il capitalismo è una bestia che ha la pelle dura, e non si lascia sotterrare senza combattere. E quindi passa al contrattacco. La prima mossa è nel segno della responsabilità sociale e della sostenibilità, parola magica che apre oggi le porte di tutti i cuori, specialmente quelli giovani. Sono anni che le grandi corporation appendono le insegne della sostenibilità sulla porta d’ingresso dei grattaceli che ne ospitano gli headquarters. Ma ora hanno accelerato. Qualche mese fa la Business Roundtable Americana, una lobby che rappresenta 180 tra i più potenti capi azienda statunitensi, ha aggiornato la ‘mission’ delle grandi imprese capitalistiche: non più solo ‘creare valore’ per gli azionisti, ma assumersi responsabilità per l’intera società facendosi carico del benessere di tutti gli stakeholder, un termine onnicomprensivo sotto il cui ombrello vanno i dipendenti, i sindacati, le istituzioni che regolano il mercato, i consumatori, i clienti, nel complesso anche le popolazioni che sono in qualche modo impattate dalle attività economiche e produttive.

    Poi le voci a favore di una svolta sostenibile e green si moltiplicano, dichiarando che il cambiamento climatico è diventato un fattore “che definisce” le prospettive a lungo termine delle grandi imprese industriali e finanziarie e spiegando che ci si comporterà di conseguenza nelle future scelte di investimento. L’Europa comunitaria, quasi orfana ormai della Gran Bretagna e alla ricerca di se stessa senza leader degni di questo nome dopo l’uscita di scena di Gerhard Schroeder e di Tony Blair, cerca di salire sullo stesso treno, e punta tutto sul Green per tentare di risollevare un’economia continentale messa in difficoltà prima dalla ottusa austerity di Merkel e Schaeuble e poi da una guerra commerciale globale del tutto inattesa, con il condimento della schieramento dalla parte sbagliata nelle grandi partite geopolitiche, a cominciare dall’Iran.

    Insomma, il Green è l’asso che il capitalismo screditato sta cercando di tirare fuori dalla manica per recuperare popolarità e consenso come modello e sistema di buon funzionamento dell’economia. Dal punto di vista del marketing sembra un’ottima trovata, anche perché consente ai signori del denaro di distanziarsi dall’antipatico Trump, rappresentato a torto o ragione sui media globali come un amico delle emissioni nocive che stanno assassinando il pianeta. E poi oltretutto Green è anche il colore dei bigliettoni che in tutto il mondo sono il simbolo del capitalismo. Puoò funzionare? O si è soltanto messo sul fuoco un nuovo pentolone che può produrre una bolla del tutto simile a quella di Internet di 20 anni fa o dei subprime di 10 anni fa, solo di colore diverso?

    Tags: capitalismogreen deal

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