La questione Grecia non è una questione del popolo greco o del governo greco, è una questione dell’Unione europea, è una parte del corpo, essenziale come tutte le altre, che ha un male, e che va curato in quanto male del corpo intero, non come problema localizzato. O si fa questo salto di qualità nell’interpretare la situazione, o l’Unione non potrà fermare la sua corsa verso il dissolvimento.
Lo ha detto bene oggi il presidente del gruppo liberale al Parlamento europeo Guy Verhofstadt: “Non si capisce perché non riusciamo a risolvere un problema da 300 miliardi in un’area economica che ne vale 15 trilioni”. Non ci si riesce perché, come ha detto nella stessa Aula il leader dei socialisti Gianni Pittella “serve un sussulto di orgoglio e responsabilità da parte di tutti per salvare l’Europa”. Non ci si riesce perché chi dovrebbe risolverlo è preso prioritariamente dalla considerazione dei problemi nazionali. Sta diventando il normale metodo di lavoro. I leader europei, gli alti funzionari nazionali e comunitari qui a Bruxelles, quando discutono ad esempio di Grecia mettono tra le principali priorità il fatto che il presidente del governo spagnolo Mariano Rajoy vuole evitare una soluzione che possa rafforzare l’opposizione di Podemos alle prossime elezioni politiche di novembre. Si considerano anche le posizioni di Matteo Renzi e altri premier che hanno in casa forti partiti anti euro o considerati populisti (molti lo sono davvero). Contano anche, e l’ha detto oggi Jean-Claude Juncker parlando al Parlamento europeo quando ha sottolineato che nell’Ue ci sono cittadini più poveri che in Grecia, le posizioni di quei premier dei paesi meno ricchi dell’Unione che dicono “se si aiuta la Grecia perché non date un aiuto anche a noi? Perché noi dobbiamo fare sacrifici nel silenzio?”. E poi ci sono quelli che avevano problemi nelle finanze pubbliche, o che hanno dovuto fare profonde riforme, e che ci sono riusciti e non vedono perché la Grecia non possa fare lo stesso. Per abbondare c’è anche la posizione dei governi popolari che a malavoglia son disposti a siglare un’intesa, e dunque riconoscere un successo nella trattativa, con un governo di “estrema sinistra”.
Lo stesso tipo di approccio appare quando si parla di immigrazione, ovviamente, o di qualsiasi altro tema.
Qui si sta smarrendo l’Europa unita, nel compilare un elenco di priorità sbagliate, che hanno perso di vista il corpo intero del quale ogni parte è indispensabile. Gli Stati Uniti hanno appena salvato Portorico, che non è esattamente uno degli Stati Usa, ma il cui capo di stato è il presidente statunitense, che ha avuto un problema simile a quello greco. Il dollaro non ha mostrato cedimenti o dubbi: c’era una ferita (minuscola rispetto al corpo intero) ed è stata curata. La moneta ha mostrato la sua forza. Ovviamente qui in Europa non è la stessa cosa, non siamo uno Stato federale, ma abbiamo una moneta che deve mostrare la sua forza difendendosi da sola, in quanto tale. Perché è la moneta di tutti, e perderne dei pezzi fa male a tutti. Ma soprattutto sarebbe l’interpretazione sbagliata del progetto europeo, sarebbe la sua negazione. Questo vuol dire che lo sforzo lo devono fare tutti i partner dell’euro, anche la Grecia, ovviamente, presentando piani credibili e ricevendo proposte accettabili dagli altri diciotto della moneta unica. Il problema non è ad Atene, non è a Berlino, non è a Parigi, Madrid o Roma: è in tutti questi posti contemporaneamente ed è, soprattutto a Bruxelles e Francoforte. O ci chiariamo questo, o si cambiano le priorità dell’analisi, o non se ne uscirà. Di strumenti tecnici che ne sono a bizzeffe, di soldi anche. Bisogna però cambiare l’ottica dalla quale si guarda.