Di Michele Valente
Nella Babele europea dei sistemi formativi e di istruzione pubblica e privata, il ‘language learning’ è tutto fuorché ‘problem solving’. Questione complessa che interroga l’intero panorama sociale e generazionale, economico e del mercato del lavoro nell’Unione Europea. Al tempo della mobilità intensiva e della trasformazione dei processi produttivi legati alla digitalizzazione e all’interdipendenza strategica, la sfida delle competenze linguistiche deve essere il baricentro di un’offerta formativa europea multi-livello.
Le lingue europee come spazio di formazione e divisione
Come certificano i dati forniti da Eurostat (2018), l’apprendimento di una lingua straniera richiede un’integrazione crescente, spesso difficile, con la ricchezza culturale del Paese. Un patrimonio, quello europeo, che riconosce, a seguito della membership della Croazia nell’Unione europea (2013), 24 lingue ufficiali, numericamente inferiori rispetto agli attuali stati membri (28) – almeno fino all’uscita dall’Ue del Regno Unito (29 marzo 2019), che comunque lascerà ‘in eredità’ l’inglese e il relativo vocabolario tecnico, oggi integrato perfino negli idiomi più conservatori del Continente –. L’aspetto della continuità linguistica interna, inoltre, è non meno problematico e marca profonde differenze nazionali. In Belgio, le lingue dividono territorialmente il Paese: a nord le Fiandre, dove l’olandese è la lingua dei belgi fiamminghi, a sud la Vallonia, dove il francese è la lingua dei belgi valloni, con un’enclave germanofona al confine con la Germania. Le leggi Gilson del 1962, modellando l’assetto federale belga, hanno creato un confine linguistico definito, individuando exclavi francofone e fiamminghe in diverse regioni, oltre a riconoscere il bilinguismo a Bruxelles e nell’area contermine alla capitale. La Spagna è terra di radicate tradizioni linguistico-culturali: riconosciute come lingue co-ufficiali dal governo centrale, basco, galiziano, occitano e catalano (quest’ultimo anche a livello Ue) sono il nucleo vitale di un’identità regionale, “oggetto di speciale rispetto e protezione” (art.3 della Costituzione spagnola), ma anche strumento di lotta politica, come le vicissitudini storiche, passate e recenti, hanno più volte testimoniato. A livello di istruzione primaria, l’inglese è la lingua straniera insegnata in quasi il 100% dei paesi Ue, mentre tra gli stati membri che hanno fatto il loro ingresso tra il 2004 e il 2007 (tra cui Estonia, Lituania, Repubblica ceca, Slovacchia e Romania) – dove in passato era obbligatorio l’insegnamento, come seconda lingua, del russo -, l’inglese ha registrato, nel 2016, una forbice di apprendimento tra il 69% e l’85% nella popolazione scolastica più giovane. Più frammentata la situazione nell’istruzione secondaria: considerando 27 stati Ue (escluso il Regno Unito), l’inglese si attesta al 94%, seguito a distanza da spagnolo (21,5%,), tedesco (17,2%) e francese (16,4%), la prima delle tre cresciuta, tra il 2011 e il 2016, del 3,2%, mentre le altre due hanno registrato un calo di -3,9% e -6,6%.
‘Missione istruzione’ per un’Unione inclusiva
Di inglese come ‘lingua franca’ per lavoro e istruzione, ma non solo, si è parlato nella tavola rotonda ‘L’Europa dal punto di vista dell’università. Tra populismi e comunità di destino‘, presso la sede della Società Dante Alighieri in occasione della giornata conclusiva del ‘Festival delle Lingue’, svoltosi quest’anno in due sedi (Bruxelles, 16 ottobre) e Roma (dal 25 al 27 ottobre). “Manifestazione che“, spiegano gli organizzatori, “negli anni coinvolgerà altre città europee e attiverà già dall’anno prossimo processi di scambio fra giovani e giovanissimi italiani ed europei“. Risulta cruciale stimolare i più giovani in iniziative di respiro europeista, adottando un’ottica inclusiva e plurale, specie in una fase storica – ha ricordato Mario Morcellini, professore ordinario e consigliere AgCom, moderatore nel panel di chiusura del Festival –, in cui il prevalere di particolarismi nazionali, in termini di interessi economici specifici come di marginalizzazione socio-culturale, rischia di frenare il decennale processo d’integrazione europea. Ineludibile, dunque, mettere la formazione continua dei giovani cittadini europei al centro delle politiche Ue per l’istruzione e l’educazione, in linea con gli obiettivi da raggiungere entro il 2020 (ET 2020, Eurostat):
- ‘Portare al 95% i bambini sotto i 4 anni iscritti alla scuola per l’infanzia’;
- ‘Diminuire gli abbandoni nella scuola dell’obbligo sotto il 10%’;
- ‘Ridurre sotto il 15% il totale dei giovani quindicenni con competenze insufficienti in lettura, matematica e scienze’;
- ‘Raggiungere quota 40% nella formazione terziaria per l’ultima fascia di giovani (tra i 30 e i 34 anni)’.
“Dobbiamo guardare attentamente ai sistemi educativi e all’azione degli stati membri per assicurare ai giovani una formazione su come lavorano le nostre democrazie e istituzioni” – ha commentato il commissario europeo per l’educazione e le cultura Tibor Navracsics presentando l’ultimo Education and Training Monitor 2018. I dati raccolti, nel complesso positivi, certificano un impegno condiviso dei paesi Ue verso una formazione accessibile per tutte le fasce d’età. Restano ancora da correggere alcuni squilibri: secondo la rilevazione PISA (Ocse, 2017), gli studenti con competenze insufficienti in ambito scientifico-matematico sono il 5% in più rispetto alla soglia-obiettivo del 15%, così come limitata è la riduzione del numero dei NEET (giovani tra i 18 e i 24 anni non impegnati in percorsi di formazione o occupati), che è poco superiore (10,6%, Eurostat 2017), soprattutto tra gli stranieri residenti (19,4%), rispetto al limite del 10% fissato per il 2020. “In un contesto di crescente frammentazione sociale, violenta radicalizzazione, notizie false e mancanza di pensiero critico – conclude Navracsics –, così come nell’integrare i nuovi immigrati, non c’è altra soluzione che rafforzare l’educazione alla cittadinanza”.