Bruxelles – In caso di minaccia grave per il suo ordine pubblico o la sua sicurezza interna, uno Stato membro può ripristinare un controllo di frontiera alle sue frontiere con altri Stati membri ma senza superare una durata massima totale di sei mesi, oltre i quali o si ripristina al situazione precedente o si chiede una proroga alla Commissione europea. Lo chiarisce la Corte di giustizia nell’UE, pronunciandosi su un caso di un cittadino extra-comunitario fermato e multato dalle autorità austriache nel contesto della crisi migratoria. I giudici di Lussemburgo ricordano che tale possibilità è prevista e riconosciuta ai sensi del codice frontiere Schengen.
La legislazione in questione riconosce la natura europea delle politiche di coordinamento e gestione dei fenomeni migratori, pur salvaguardando la sovranità nazionale dei Ventisette, che la esercitano in forza della loro natura di entità indipendente. Tuttavia, dopo 180 giorni la situazione o va riportata alla situazione originaria o deve essere oggetto di richiesta.
Il periodo di sei mesi, ai sensi della normativa, è considerato “sufficiente” affinché lo Stato membro interessato adotti, eventualmente in cooperazione con altri Stati membri, misure che consentano di far fronte a una siffatta minaccia preservando al contempo, dopo tale periodo di sei mesi, il principio della libera circolazione alla base del progetto comunitario.
La Corte di giustizia dell’UE chiarisce inoltre che una persona “non può essere obbligata, a pena di sanzione”, a esibire un passaporto o una carta d’identità al momento del suo ingresso in provenienza da un altro Stato membro, “qualora il ripristino del controllo di frontiera sia contrario al codice frontiere Schengen.