Bruxelles – Nel suo anticipatissimo rapporto (che potete consultare qui in italiano), l’ex numero uno della Bce Mario Draghi ha tratteggiato la strada che l’Unione europea dovrà seguire nei prossimi anni se vorrà continuare a crescere (o meglio, riprendere a crescere) rimanendo competitiva a livello internazionale. Dalla decarbonizzazione alla difesa, passando per le tecnologie digitali avanzate, il documento affronta dieci politiche settoriali che rappresentano altrettante priorità che andranno affrontate di petto nell’immediato futuro. Ma le ricette di “super Mario”, per funzionare, richiederanno risorse finanziarie molto più che ingenti. La questione fondamentale che la prossima Commissione dovrà affrontare sarà dunque quella delle “coperture“: come verranno messi insieme tutti i soldi necessari per far ripartire il motore europeo? Draghi ha parlato espressamente di “finanziamenti congiunti“, ed è un segreto di Pulcinella che l’ex premier italiano sia da sempre favorevole all’emissione di debito comune da parte dei Ventisette. Basterà il suo impulso autorevole a convincere le cancellerie più riluttanti?
Secondo Draghi, “è evidente che l’Europa è al di sotto dei risultati che potremmo ottenere se agissimo come comunità“. Ad ostacolare il raggiungimento di tali risultati sono, secondo l’ex primo ministro, “tre barriere”: l’assenza di “concentrazione” e la “frammentazione” del mercato unico, lo “spreco” delle “risorse comuni” e, infine, la mancanza di un vero “coordinamento” che combini politiche pubbliche su più livelli (fiscali, economiche e commerciali, ad esempio) creando una sinergia a livello di programmazione politica tra Stati membri e Bruxelles.
Il primo problema si riassume nell’assenza di “priorità chiare” e “azioni politiche congiunte” che diano effettivamente sostanza agli obiettivi comuni che pure vengono articolati sulla carta: ad esempio, “sosteniamo di favorire l’innovazione, ma continuiamo ad aggiungere oneri normativi alle aziende europee”. Quanto allo spreco delle risorse, Draghi ha sottolineato la duplicazione che emerge dal fatto che “abbiamo una grande capacità di spesa collettiva, ma la diluiamo in molteplici strumenti nazionali e comunitari“, il che compromette l’efficienza della spesa stessa.
Altrettanto evidente, secondo il professore, è pure la soluzione: “Se le condizioni politiche e istituzionali sono presenti, l’Ue dovrebbe continuare – basandosi sul modello del NextGenerationEu – a emettere strumenti di debito comune, che verrebbero utilizzati per finanziare progetti di investimento congiunti volti ad aumentare la competitività e la sicurezza“. Più esplicito di così. Il debito comune tra Stati membri, insomma, non dovrebbe più essere un tabù.
Eppure continua ad esserlo, rimanendo politicamente indigeribile per molte cancellerie a partire da quelle dei cosiddetti “frugali”, Germania e Paesi Bassi in testa. La stessa presidente eletta dell’esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, in conferenza stampa accanto a Draghi ha rifiutato di rispondere direttamente sul punto. “Se definiamo priorità comuni, vanno finanziate attraverso soldi europei”, ha dichiarato ai giornalisti, senza spingersi oltre le due alternative citate durante la presentazione: l’aumento dei contributi nazionali al bilancio dell’Unione oppure un aumento delle risorse proprie (o entrambe le cose insieme). Per procedere con finanziamenti comuni, invece, dev’esserci la “volontà politica degli Stati membri”: una pietra tombale – almeno temporanea – sulle speranze della futura emissione di nuovi titoli di debito collettivo, cioè i famigerati Eurobond.
A sentire il professore, tuttavia, siamo di fronte ad una congiuntura della Storia per cui non possiamo più rimandare il problema. E non sembrano esserci altre via d’uscita, soprattutto se si vuole uscirne in maniera efficace. “Si possono trarre due conclusioni chiave per l’Ue”, dice Draghi. “Sebbene l’Europa debba avanzare con la sua Unione dei Mercati dei Capitali (come suggerito da un altro ex premier italiano, Enrico Letta, nel suo rapporto sul futuro del mercato unico, ndr), il settore privato non sarà in grado di fare la parte del leone nel finanziamento degli investimenti senza il sostegno del settore pubblico“.
È un punto su cui l’ex premier è tornato più volte. Come a dire: la spesa privata sarà necessaria, certo, ma non sarà neanche lontanamente sufficiente per rilanciare l’economia del Vecchio continente. Servirà, al contrario, un supporto da parte delle autorità pubbliche dell’ordine di un paio di piani Marshall: qualcosa come 750-800 miliardi di euro (poco meno del 5 per cento del Pil Ue), secondo le stime dell’autore del rapporto, per riportare l’Unione a essere competitiva nel mercato globale.
Ma come si fa a fare investimenti pubblici efficaci? In sostanza, quello che Draghi suggerisce di innescare è una sorta di circolo virtuoso della spesa pubblica: “Quanto più l’Ue è disposta a riformarsi per generare un aumento della produttività, tanto più aumenterà lo spazio fiscale e sarà più facile per il settore pubblico fornire questo sostegno“, si legge nel documento. “Questo collegamento sottolinea perché l’aumento della produttività è fondamentale“, continua Draghi, ribadendo che questo comporta anche “implicazioni per l’emissione di beni comuni sicuri“.
Ora, gli investimenti in “beni pubblici europei” dovranno arrivare da “un finanziamento congiunto” per massimizzare la produttività. Questo significa che, anziché avere ventisette investimenti nazionali in contesti limitati e con regole diverse, che finiscono col generare una duplicazione di strutture e risorse che non avvantaggia nessuno, vanno coordinati gli sforzi a livello comunitario per razionalizzare le spese e fare in modo che portino i maggiori vantaggi condivisi possibile. Allo stesso tempo, altri beni pubblici (come gli appalti per la difesa e le infrastrutture energetiche transfrontaliere, ad esempio) “saranno insufficienti senza un’azione comune”.
Stando al rapporto Draghi, ci sono tre categorie di risposte che Bruxelles e i Ventisette possono dare. In molte aree, “l’Ue può ottenere molto compiendo un gran numero di passi più piccoli, ma in modo coordinato e allineando tutte le politiche all’obiettivo comune”. In altre, “è necessario un piccolo numero di passi più grandi – delegando a livello europeo compiti che possono essere svolti solo lì”. E poi, per altre questioni ancora, “l’Ue dovrebbe fare un passo indietro, applicando il principio di sussidiarietà in modo più rigoroso e riducendo l’onere normativo che impone alle aziende” e consentendo agli Stati membri di gestire le cose in maniera decentrata.
Insomma, l’ex presidente della Bce ha le idee chiare non solo su cosa va fatto, ma anche su come farlo. Le sfide comuni del nostro tempo richiedono, secondo Draghi, risposte comuni. E come dimostrato dall’Ue nella risposta alla pandemia (che ha messo in campo strumenti finanziari congiunti quali il NextGeneration), se esiste la volontà politica i risultati si possono ottenere. Ora starà tutto nel trovare – o creare – questa volontà politica, quando tutti i membri del club europeo capiranno che è nell’interesse collettivo muoversi insieme in maniera coordinata. Un compito non di poco conto per il secondo Collegio von der Leyen, che ha già assicurato che nelle linee guida per i prossimi cinque anni confluiranno gran parte delle indicazioni ricevute nel rapporto di Mario Draghi.