È un’idea piena di fascino. Eccome! Il punto, però, è se quello che è stato fatto dopo si sia rivelato all’altezza di questa idea. E su questo, francamente, ho molti dubbi. Federico si riferisce all’Unione europea. L’idea è ancora valida. Forse si è perfino rafforzata. E’ un fatto che la storia recente dell’Europa è quella di un continente di pace e, come ha anche detto Gianluca Sgueo nella terza conversazione di questo blog, le nuove sfide mondiali rendono intuitiva l’idea che una maggiore massa critica è necessaria se si vuole “contare” sulla scena internazionale, svolgendo un ruolo da protagonisti, anziché da comprimari, se non da spettatori.
L’Europa rappresenta un grande contenitore geografico e culturale. La prima libera associazione con l’Europa è sempre la cultura. La storia dell’Europa è la storia di un continente che ha dato un contributo eccezionale al Pensiero e all’Arte. Con la P e con la A maiuscole. Così, al volo, mi vengono in mente musicisti come Mozart, Beethoven e Bach, artisti come Michelangelo, Leonardo da Vinci, Monet, Picasso, scrittori come Balzac, Joyce, Kafka, Pirandello, cantautori come De André, Battisti, Jacques Brel, George Brassens, Joaquin Sabina, sportivi come Zidane, Roberto Baggio, Cruyff, registi come Herzog, Fellini, Truffaut, Almodovar. Potrei continuare all’infinito, citando i personaggi – soprattutto europei – che hanno influenzato la mia vita e quella di tantissimi altri. Sei è il titolo di questo articolo un pò lungo, avverto e mi scuso già con chi legge. Il sesto di una serie di articoli dedicati a delle conversazioni, più o meno politicamente scorrette, con chi ancora crede nella bellezza dell’idea di Europa e nella necessità pratica degli Stati Uniti d’Europa. Solo nel ‘900, e specialmente nella seconda metà di questo secolo, l’Europa ha iniziato a perdere il proprio ruolo di protagonista culturale a favore dell’America (degli Stati Uniti, più precisamente). L’Europa è più di un contenitore geografico e culturale. Per me rappresenta un progetto estremamente ambizioso e complesso, la cui attuazione non si è rivelata, fino ad ora, all’altezza delle intenzioni originarie.
Chi studia l’ordinamento dell’Unione europea per professione non può ignorare le enormi difficoltà che sconta il tentativo di costruire una comune casa del diritto, destinata ad accogliere dentro le sue mura 27 Stati diversi, alcuni dei quali molto differenti fra loro per tradizione giuridica. Federico Dinelli è avvocato e ricercatore universitario di diritto amministrativo. Quindi è in un certo senso straordinario che si sia riusciti nell’impresa di elaborare, in molti settori dell’ordinamento, un diritto comune o armonizzato. Il quadro giuridico europeo è complesso ma non credo possa ritenersi l’unico freno alle ambiziose intenzioni originarie. L’Unione europea è un soggetto dotato di scarsa carica emotiva, algido e cervellotico, poco “popolare” nel senso positivo del termine.
Abbiamo fatto degli indiscutibili progressi in termini di civiltà giuridica grazie all’influenza del diritto europeo. Progressi giuridici ma non politici. L’obiettivo della maggiore integrazione politica, sociale e culturale, che avrebbe dovuto essere raggiunto grazie all’integrazione giuridica ed economica, mi sembra ancora molto lontano, e credo che la nostra generazione viva il rapporto con i cittadini degli altri Stati europei in modo sostanzialmente non diverso da quello dei nostri genitori. Più o meno. Sì, magari abbiamo fatto qualche viaggio in più di loro, abbiamo trascorso qualche mese a Londra, Madrid, Berlino o a Parigi, abbiamo imparato a parlare o a parlottare un’altra lingua, ma dal punto di vista collettivo, quello della coscienza che un popolo ha di se stesso e degli altri popoli, non mi pare proprio che siano stati fatti dei grandi passi in avanti. Federico Castiglioni nella precedente conversazione ha detto che “ci sono tanti bavaresi che si sentono poco tedeschi, gli scozzesi non si sentono britannici, non parliamo dei catalani o di molti sardi.. diciamo che se per popolo si intende un insieme indivisibile di persone, una monade, allora non esiste. Ci sono moltissime persone in Europa che, consciamente o inconsciamente, sono nate in un panorama culturale specifico, quello europeo”.
La coscienza di un popolo. L’Unione europea, oltre che di una comune lingua, continua a mancare di riferimenti culturali comuni, indispensabili affinché si possa formare un popolo unitario, senza il quale è velleitario ogni tentativo di realizzare una vera Unione democratica. Non che si debba replicare necessariamente l’esperienza di uno Stato nazionale. Se guardiamo al modo in cui si è formato il popolo italiano, grazie essenzialmente alla scuola, al servizio militare e alla televisione, credo che potremmo ricavarne una lezione su cosa si potrebbe fare per favorire l’integrazione dal basso, ovvero la creazione di un popolo europeo. Per dirla con il Faust di Goethe “quello che chiamate lo spirito dei tempi”. Perché, ad esempio, non cominciamo a condividere i programmi scolastici? Perché non istituiamo un telegiornale europeo che venga trasmesso da tutti i gestori del servizio radiotelevisivo degli Stati membri? Perché non prevediamo un servizio civile (obbligatorio) comune? Perché non obblighiamo i nostri studenti a trascorrere almeno un anno del loro percorso scolastico, durante le scuole superiori, in un altro Stato europeo?
Ottime proposte ancora non molto dibattute. Allora non c’è da stupirsi se gli elementi divisivi continuano a prevalere: penso alle imprese italiane che, rispetto alle imprese di altri Stati, subiscono gli effetti negativi di un’imposizione fiscale estremamente più gravosa. Come si fa a parlare di par condicio fra le imprese europee se i regimi fiscali ai quali queste sono sottoposte sono radicalmente diversi? È inevitabile che ci siano delle insofferenze. La verità è che oggi l’Unione europea è un affare per alcuni Stati e un problema per molti altri. Federico si concede una nota tecnica. La concorrenza ce la stiamo facendo noi stessi dentro all’Unione, non la stanno facendo le imprese europee a quelle degli altri continenti. L’impresa europea, o il GEIE (gli avidi di conoscenza possono cliccare quì, chi non lo è può andare al paragrafo successivo), come strumenti giuridici, non hanno avuto un impiego significativo. Sono rimasti concetti sostanzialmente teorici. Esistono ancora oggi i campioni nazionali (imprese di Stato francesi, tedesche, italiane ecc.), che cercano di espandere il loro potere di mercato, ma non sono nati dei campioni europei. Ed anche quando sono stati fatti dei tentativi in questo senso (penso al caso di un’intesa fra Suez e Acea nel settore dell’acqua), sono stati stroncati sul nascere delle autorità antitrust nazionali. Anche il modo in cui è concepita la tutela della concorrenza deve essere rivisto: non hanno senso tante autorità quanti sono gli Stati, perché questo impedisce alle imprese di lievitare fino a poter competere sul mercato mondiale. Il mercato, ormai, ha dimensioni mondiali, non più nazionali né europee.
Non solo il mercato ha dimensioni mondiali. Le sfide che ogni Paese è chiamato ad affrontare sono globali. Da soli, come singoli Stati, non si va da nessuna parte. Facili slogan a parte, abbiamo bisogno di una Unione politica. L’unione è una necessità e lo strumento per realizzarla non è l’integrazione economica. Nei fatti, all’integrazione economica non è seguita l’integrazione politica. Ad oggi vedo più concreto il rischio di una disgregazione progressiva che la possibilità di realizzare un nuovo Stato federale. Diciamoci la verità: all’Unione europea mancano ancora moltissime caratteristiche di uno Stato federale. Per realizzare uno Stato federale dobbiamo cambiare i Trattati. Non abbiamo un comune esercito, non abbiamo un comune corpo di polizia, non abbiamo uno stesso diritto penale e una comune amministrazione della giustizia, non abbiamo una comune politica fiscale. Né abbiamo politica estera e politica migratoria comune. Questa la sfida più urgente che abbiamo davanti. Chi entra in Italia o in Germania, sia che fugga da una guerra, sia che cerchi semplicemente un lavoro, deve essere considerato non come un problema o, all’opposto, come una risorsa dell’Italia o della Germania, ma come un problema o come una risorsa dell’Unione. Se non affrontiamo nel modo giusto questo problema, è inutile fantasticare di Stati federali. Il migration compact proposto dal nostro governo potrebbe essere un buon punto di partenza. Se prevarranno gli egoismi nazionali, sarà possibile solo la divisione. In comune con tutti abbiamo il mercato e, con una buona parte, la moneta unica. Sì, è vero, abbiamo una stessa moneta, ma questo, in assenza di altre condizioni, rischia di essere più un problema che un’opportunità. Infatti l’euro non è certo visto con simpatia dalla maggior parte dei nostri concittadini. E non serve nemmeno dire, come spesso si fa, che l’euro ha salvato la nostra economia, perché questa affermazione è priva di riscontri, mentre è un dato di fatto che con la moneta unica gli Italiani si sono impoveriti.
Condizioni diverse sono possibili se si mettono da parte alcuni tabù e si determina una volontà politica di compiere significativi passi in avanti. Penso che un’Unione europea più ristretta, formata soltanto da alcuni Stati, sarebbe un buon modo di incominciare, ma sono anche molto scettico sulla possibilità che possa realizzarsi. Questo perché gli Stati che potrebbero realizzarla (penso ai fondatori) sono anche quelli più in competizione fra loro. Certo è che anche l’allargamento eccessivo dell’Unione è fra le cause che hanno determinato l’attuale situazione di stallo. Comunque, sicuramente il nocciolo duro di un ipotetico Stato federale dovrebbe includere Germania, Italia, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Spagna, Portogallo e Grecia.
Queste sarebbero le condizioni che ci permetterebbero di essere all’altezza del nostro grande potenziale di europei. Non ci credo che non riusciamo ad attingere al nostro smisurato patrimonio culturale per rendere emozionante l’idea dell’Unione europea. Possibile che ci siamo inariditi a tal punto?! Abbiamo tutto quello che serve per essere all’altezza delle più alte ambizioni europeiste. Come dice Marco Piantini, abbiamo tutte le risorse. L’Europa, nel mondo, ha innanzitutto la responsabilità di continuare a produrre cultura e valori. La nostra cultura della pace, maturata con molta fatica, la nostra idea della laicità dello Stato (intesa, più che alla francese, all’italiana, cioè come tolleranza verso tutte le religioni), la nostra attenzione verso la vita umana e verso la dignità della persona, la cultura ambientalista, la nostra capacità di inventare nuovi modi di produrre ricchezza e di promuovere stili di vita compatibili con il mondo che ci circonda: tutto questo è quello che l’Europa avrebbe da dire al mondo. Scusate se è poco!
Informazione per chi vuole unire l’Europa ma non sa come fare. Nella prima conversazione di questo blog abbiamo accennato all’incontro che si è tenuto a luglio nel bar più europeo d’Europa a 1500 chilometri da Bruxelles. Settimana prossima, europei di ogni provenienza, ci ritroveremo davanti ad un bar. Chi si vuole unire può cliccare quì.