Bruxelles – Dopo l’analisi della decisione arriva il responso da Bruxelles. “La Commissione Europea si rammarica dell’entrata in vigore del Regolamento della Banca centrale del Kosovo” sulla trasparenza e stabilità dei flussi finanziari e sulla lotta al riciclaggio di denaro e alla contraffazione “senza una consultazione preventiva”. Lo ha affermato oggi (2 febbraio) in un punto con la stampa il portavoce-capo dell’esecutivo comunitario, Eric Mamer, appoggiando le “preoccupazioni” espresse ieri (primo febbraio) dal portavoce del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano, in occasione dell’entrata in vigore del Regolamento che ha introdotto l’uso esclusivo dell’euro “sulla vita quotidiana dei serbi del Kosovo e di altre comunità” nel Paese, “a causa dell’assenza di una consultazione preventiva”.
A proposito delle conseguenze sul “sostegno finanziario che i serbi del Kosovo ricevono dalla Serbia“, l’impatto maggiore secondo Bruxelles riguarda in particolare “scuole e ospedali, data l’apparente assenza di alternative in questo momento”. L’uso esclusivo dell’euro come valuta di cambio e come deposito nei conti bancari è previsto dalla Costituzione del Kosovo e il Regolamento in questione ha stabilito le modalità di applicazione, vietando a qualsiasi prestatore di operare senza licenza (come al momento accade con Postanska Stedionica, l’intermediario serbo per i fondi in arrivo da Belgrado a circa 90 mila serbo-kosovari). In ogni caso non sono interessate le transazioni volontarie tra parti che utilizzano valute diverse dall’euro: in altre parole, il dinaro serbo può ancora essere scambiato al pari del lek albanese o del dollaro. La decisione avrà comunque un impatto sulle regioni settentrionali del Paese a maggioranza serba, dove alcune banche e servizi pubblici utilizzano esclusivamente il dinaro serbo come valuta corrente, non essendosi mai adeguati all’adozione dell’euro da parte di Pristina nel 2002 (ancora prima dell’indipendenza).
Dopo aver appena risolto la questione delle targhe che ha infiammato gli ultimi due anni e mezzo di rapporti tra Serbia e Kosovo, i partner di Pristina – compresa l’Ue con il suo rappresentante speciale per il dialogo Belgrado-Pristina, Miroslav Lajčák – nei giorni scorsi avevano chiesto che la decisione fosse quantomeno ritardata. Il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, aveva invece avvertito che utilizzerà “tutti i mezzi disponibili contro il divieto del dinaro in Kosovo” (anche se si tratta un’interpretazione non fattuale della realtà), coinvolgendo direttamente la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen: “Ho chiesto che usi tutte le sue forze ed energie per fare in modo che una cosa del genere non accada”. Ma il premier kosovaro, Albin Kurti, ha messo in chiaro che le nuove regole “non sono negoziabili” e che “non vogliamo punire nessuno, ma solo riportare la legalità, la costituzionalità e la regolarità” anche nel nord del Paese. La presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, ha precisato che il Regolamento garantirà “un po’ di tempo” per il trasferimento dei fondi in dinari serbi su altri conti in euro, con “una serie di opzioni” sull’implementazione del nuovo regime finanziario.
Il portavoce del Seae Stano sottolinea però che “il breve periodo di transizione” per l’attuazione del Regolamento e la “mancanza di informazioni e di soluzioni pratiche per tutte le comunità interessate” rischia di “complicare seriamente” la vita dei cittadini. L’esortazione dell’Unione al Kosovo non è solo quella di “garantire un periodo di transizione sufficientemente lungo”, ma anche di “trovare una soluzione negoziata a questo problema nell’ambito del dialogo facilitato dall’Ue” tra Pristina e Belgrado. Bruxelles sta faticando a gestire le tensioni tra i due Paesi, dopo un 2023 iniziato tra grandi speranze – l’accordo di Bruxelles del 27 febbraio ha definito gli impegni specifici e il 18 marzo a Ohrid è stata raggiunta l’intesa sull’allegato di implementazione – e proseguito con un aumento della conflittualità diplomatica e sul campo.
Tutti i motivi di tensione tra Serbia e Kosovo
Dopo le due riunioni estive del 2021 tra il premier Kurti e il presidente Vučić a Bruxelles, a metà settembre dello stesso anno è scoppiata per la prima volta nel nord del Kosovo la cosiddetta ‘battaglia delle targhe‘. Inizialmente si è trattata di una controversia diplomatica tra Pristina e Belgrado, legata alla decisione del governo Kurti di imporre il cambio delle targhe ai veicoli serbi in entrata nel territorio kosovaro, usate in larga parte proprio dalla minoranza serba nel Paese. La questione è stata momentaneamente risolta grazie alla mediazione Ue, ma l’assenza di una soluzione definitiva ha infiammato la seconda metà del 2022: a fine luglio sono comparsi i primi blocchi stradali e barricate delle frange più estremiste della minoranza serbo-kosovara e due riunioni fallimentari tra Vučić e Kurti a Bruxelles non hanno portato a nessuno sblocco dello stallo.
La situazione si è aggravata quando Lista Sprska ha preso in mano le redini della protesta popolare nel nord del Kosovo. Il 5 novembre sono andate in scena dimissioni di massa di sindaci, consiglieri, parlamentari, giudici, procuratori, personale giudiziario e agenti di polizia dalle rispettive istituzioni nazionali in protesta contro il piano graduale per l’applicazione delle regole sulla sostituzione delle targhe serbe. Tra i dimissionari c’erano anche i sindaci di Kosovska Mitrovica, Zubin Potok, Zvecan e Leposavić e per questo motivo si è reso necessario tornare alle urne nelle quattro città. Parallelamente è stata raggiunta una soluzione di compromesso sulle targhe nella notte tra il 23 e il 24 novembre a Bruxelles, anche se il presidente serbo ha minacciato di boicottare il vertice Ue-Balcani Occidentali a Tirana a causa della nomina di Nenad Rašić nel governo kosovaro (al posto del leader di Lista Srpska, Goran Rakić), come ministro per le Comunità e il ritorno dei profughi. Rašić è il leader del Partito Democratico Progressista, formazione serba ostile a Belgrado.
Il 2022 si è chiuso con una nuova escalation di tensione ai valichi di frontiera nel nord del Kosovo, dopo la decisione di Pristina di inviare alcune centinaia di forze di polizia per sopperire alla mancanza di agenti dimessisi sempre a novembre. Le barricate delle frange serbo-kosovare più estremiste sono state smantellate solo dopo alcune settimane grazie allo sforzo diplomatico dei partner europei e statunitensi. L’appuntamento alla nuova crisi doveva attendere solo cinque mesi, il 26 maggio 2023. A causa dell’insediamento dei neo-eletti sindaci di Zubin Potok, Zvečan, Leposavić e Kosovska Mitrovica sono scoppiate violentissime proteste con la responsabilità di esponenti di Lista Srpska, trasformatesi il 29 maggio in una guerriglia che ha coinvolto anche i soldati della missione internazionale Kfor a guida Nato. La tensione è deflagrata per la decisione del governo Kurti di far intervenire le forze speciali di polizia per permettere l’ingresso nei municipi ai sindaci eletti il 23 aprile, in una tornata elettorale controversa per la bassissima affluenza al voto.
Parallelamente è andato in scena il 14 giugno un arresto/rapimento di tre poliziotti kosovari da parte dei servizi di sicurezza serbi, per cui i governi di Pristina e Belgrado si sono accusati a vicenda di sconfinamento delle rispettive forze dell’ordine, in una zona di confine scarsamente controllata e utilizzata dai contrabbandieri che cercano di evitare i controlli di frontiera. Dopo settimane di continui appelli alla calma e alla de-escalation non ascoltati, Bruxelles ha convocato una riunione d’emergenza con il premier Kurti e il presidente Vučić per uscire dalla “modalità gestione della crisi”. Il 22 giugno è arrivata la scarcerazione dei tre poliziotti kosovari da parte della Serbia, ma la questione delle tensioni tra Pristina e Belgrado è finita anche nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 29-30 giugno.
A causa del mancato “atteggiamento costruttivo” da parte di Pristina per la de-escalation della tensione, Bruxelles ha imposto a fine giugno misure “temporanee e reversibili” contro il Kosovo, che prevedono anche la sospensione del lavoro degli organi dell’Accordo di stabilizzazione e associazione. Per eliminare queste misure è stata concordata il 12 luglio una tabella di marcia con quattro tappe, ma ancora sono in vigore. A pochi giorni da un infruttuoso incontro di alto livello a Bruxelles, la situazione tra Serbia e Kosovo è però degenerata con l’attacco terroristico iniziato nelle prime ore del 24 settembre nei pressi del monastero serbo-ortodosso di Banjska, quando la polizia kosovara è arrivata per la segnalazione di un posto di blocco illegale al confine con la Serbia. Dopo aver ucciso un poliziotto e averne feriti altri due, un gruppo di una trentina di uomini armati è entrato nel complesso monastico e per tutta la giornata sono proseguiti gli scontri. Durante “l’operazione di sgombero” sono morti tre dei terroristi.
Gli sviluppi del post-24 settembre hanno evidenziato diramazioni evidenti nella vicina Serbia. Come mostrato da un video girato da un drone nel giorno dell’attentato, tra gli attentatori all’esterno del monastero c’era anche Milan Radoičić, vice-capo di Lista Srpska. Il 29 settembre lo stesso Radoičić ha confermato di aver guidato l’attacco armato, una confessione che ha gettato una lunga ombra non solo sulla partecipazione della leadership serbo-kosovara in una strategia di destabilizzazione del Paese, ma soprattutto sulla capacità di Belgrado di interferire negli affari interni di Pristina. A questo si aggiungono le rivelazioni sulla presenza anche di Milorad Jevtić, stretto collaboratore del figlio del presidente serbo, Danilo Vučić. Secondo quanto emerso da un’indagine di Balkan Insight, le armi utilizzate nell’attacco erano state fabbricate in Serbia nel 2022 e alcuni proiettili di mortaio e granate erano stati riparati nei centri di manutenzione statali serbi nel 2018 e nel 2021.
A peggiorare infine le relazioni tra Kosovo e Serbia è stato l’avvertimento degli Stati Uniti di un “grande dispiegamento militare” serbo lungo il confine amministrativo. La minaccia non si è concretizzata – secondo il premier Kurti era prevista un’annessione del nord del Kosovo con “un attacco coordinato su 37 posizioni distinte” – ma l’Unione Europea ha iniziato a riflettere sulla possibilità di imporre le stesse misure in vigore contro Pristina anche ai danni di Belgrado. “Dobbiamo assicurarci di utilizzare al meglio gli strumenti di cui l’Ue dispone per incoraggiare entrambe le parti a contribuire a una soluzione della crisi”, aveva spiegato a Eunews il portavoce del Seae, Peter Stano. Ma per il via libera alle misure nei confronti della Serbia serve l’unanimità in Consiglio e ma il più stretto alleato di Vučić dentro l’Unione – il premier ungherese, Viktor Orbán – ha posto il veto. L’unica notizia positiva al momento è la risoluzione della ‘battaglia delle targhe’ tra Serbia e Kosovo, grazie alla decisione arrivata tra fine 2023 e inizio 2024 sul mutuo riconoscimento per i veicoli in ingresso alla frontiera.
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