Bruxelles – Una decisione “coraggiosa e di principio“. Con queste parole Benjamin Netanyahu, il premier israeliano sul cui capo pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale (Cpi), ha salutato la mossa dell’omologo ungherese Viktor Orbán che ha annunciato di voler ritirare il suo Paese dal tribunale delle Nazioni Unite, considerato un organismo politicizzato.
Accogliendo con tutti gli onori Benjamin Netanyahu a Budapest, dove si è recato per una visita di Stato di quattro giorni, il padrone di casa Viktor Orbán ha annunciato ieri (3 aprile) che intende far uscire l’Ungheria dalla Corte penale internazionale. In quanto parte della Cpi, il Paese mitteleuropeo dovrebbe al contrario arrestare chiunque metta piede sul suo territorio dopo essere stato raggiunto da un mandato di cattura dal tribunale dell’Aia.
“Non si tratta più di un tribunale imparziale, di un tribunale dello Stato di diritto, ma piuttosto di un tribunale politico“, ha dichiarato il primo ministro ungherese parlando accanto all’ospite israeliano durante una conferenza stampa in cui nessuno dei due ha accettato domande dai giornalisti. “Questo è diventato più chiaro alla luce delle sue decisioni su Israele”, ha continuato, sostenendo che Budapest “non può e non vuole impegnarsi” oltre con la Corte. Netanyahu ha risposto ringraziando l’Ungheria per essere “al nostro fianco” tanto in Ue quanto all’Onu, aggiungendo che “è importante che tutte le democrazie si oppongano a questa organizzazione”, definita “corrotta” e “marcia“.
❌ Hungary is withdrawing from the @IntlCrimCourt.
The ICC has become a political tribunal, evident in its witch-hunt against Prime Minister @netanyahu. We will not support a court that targets democracies like Israel for political gain. Hungary defends the rule of law. Hungary… pic.twitter.com/gMc57m332D
— Orbán Viktor (@PM_ViktorOrban) April 3, 2025
Uno sviluppo che non arriva certo come un fulmine a ciel sereno. Orbán aveva annunciato la sua intenzione di accogliere Netanyahu a Budapest già lo scorso novembre, non appena la Corte aveva spiccato contro di lui un mandato di arresto, definito dal premier ungherese come un tentativo “sfrontato” da parte della Cpi di “interferire in un conflitto in corso per scopi politici“. In risposta all’annuncio di ieri, l’istituzione ha ribadito “che l’Ungheria ha il dovere di cooperare” con l’Aia almeno finché non verrà formalizzato il ritiro, un processo che potrebbe richiedere parecchi mesi.
Tecnicamente, il mandato della Cpi dovrebbe inchiodare Netanyahu alle sue responsabilità per la devastante campagna militare in corso nella Striscia di Gaza (avviata nell’autunno 2023 e recentemente riavviata proprio dal premier israeliano dopo il fallimento del fragile cessate il fuoco stipulato con Hamas a gennaio), che prefigura secondo i giudici una serie di crimini di guerra e contro l’umanità. Ordini restrittivi analoghi sono stati emessi in quell’occasione anche per l’ex titolare della Difesa di Tel Aviv, Yoav Gallant, nonché per tre vertici di Hamas, tutti nel frattempo uccisi dall’esercito israeliano. Lo Stato ebraico ha rispedito al mittente le sentenze della Corte, bollandole come antisemite e politicamente motivate, e ha a sua volta accusato l’Aia di aver perso ogni legittimità.
Una posizione adottata anche dagli Stati Uniti, dove peraltro Netanyahu si è recato lo scorso febbraio nel suo primo viaggio all’estero dopo l’emissione del mandato di cattura. L’ufficio del premier israeliano ha fatto sapere che quest’ultimo e il suo omologo magiaro si sono confrontati con Donald Trump sui “prossimi passi” da compiere in merito all’uscita dell’Ungheria dalla Cpi.

Ma anche in Europa diversi leader hanno pubblicamente escluso di voler rispettare il mandato della Corte nel caso di una visita del capo del governo dello Stato ebraico, inclusi il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco in pectore Friedrich Merz, passando il premier polacco Donald Tusk e il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani. Un’osservazione di brutale realismo sul punto è arrivata oggi dal primo ministro belga Bart De Wever, che dichiarando di condividere la decisione di Orbán (“non credo lo faremmo nemmeno noi”) ha aggiunto di non ritenere “che nessuno Stato europeo arresterebbe Netanyahu se si trovasse sul suo territorio“. Il premier, che ne fa “una questione di realpolitik“, ha comunque deplorato il ritiro dell’Ungheria dalla Corte.
C’è del resto un filo rosso che lega tra loro i due uomini forti di Budapest e Tel Aviv. Entrambi sono rappresentanti di una destra ultranazionalista e appaiono intenti, da un lato, a smantellare le strutture democratiche in patria – a partire dall’indipendenza della magistratura e l’equilibrio tra i poteri dello Stato, per non parlare del rispetto per le voci critiche della società civile – e, dall’altro, a prendere a picconate il diritto internazionale, di cui istituzioni come la Cpi rappresentano l’emanazione tangibile.
In un caso separato, aperto dal Sudafrica sempre alla Cpi, il governo di Tel Aviv è imputato di punizione collettiva del popolo palestinese, pulizia etnica e genocidio, mentre da anni ormai le organizzazioni per i diritti umani – sia internazionali (ad esempio Amnesty e Human Rights Watch) sia locali (incluse quelle israeliane, come Yesh Din e B’Tselem) – parlano apertamente di apartheid per riferirsi al sistema di dominazione messo in piedi dagli israeliani nei territori occupati, soprattuto in Cisgiordania.
La Cpi, istituita nel 1998 tramite lo Statuto di Roma, è l’unico tribunale internazionale permanente abilitato a giudicare casi di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Ne fanno parte 125 Paesi, tra cui tutti e 27 i membri dell’Ue. L’Ungheria è uno dei fondatori della Corte e ne ha ratificato lo Statuto nel 2001, ironicamente proprio durante il primo mandato di Orbán.