Nell’anno di Gorizia-Nova Gorica capitali della cultura, almeno qui la frontiera sembra scomparsa o comunque la quotidianità l’ha cancellata. Abbiamo un bel dire che delle frontiere ci vogliamo sbarazzare, che l’Europa è ormai senza frontiere. La realtà è un’altra.
Gli stati moderni non cessano di produrre nuove frontiere e le vecchie frontiere europee, quelle che Schengen doveva cancellare, impercettibilmente si stanno richiudendo. Come se fossero faglie tettoniche impossibili da colmare. Alla fine ne abbiamo bisogno, ci servono per distinguerci perché la verità è che non vogliamo mescolarci e questo potrebbe anche avere una sua legittimità se non fosse che alla fine sul distinguere prevale il respingere, il rifiutare l’altro da sé, in una gerarchia razziale degli ammessi e respinti.
Lo storico francese Michel Foucher ha calcolato che dal 1991, solo in Europa e nell’Asia centrale sono stati tracciati trentamila chilometri di nuove frontiere. E altri ventiquattromila sono stati oggetto di accordi e delimitazioni provvisorie. A questi vanno aggiunti i diciottomila chilometri di muri o reticolati o barriere progettati e non ancora realizzati. E presumibilmente le nostre nuove frontiere saranno sempre più fatte così.
Scrive la politologa americana Wendy Brown: “Il muro trasforma una vita protetta in un ripiegamento su sé stessi, un ripiegamento fisico e morale”. E del resto la frontiera è un’invenzione tutta europea che ha avuto grande fortuna nel mondo intero.
È con il trattato di Vestfalia nel 1638 che nasce l’idea di frontiera, quando si deve mettere in pratica il concetto del “cuius regio eius religio”: i popoli devono riconoscersi in base alla loro fede, quindi in base alla lingua in cui è tradotta la loro Bibbia e quindi seguendo i limiti della sua diffusione. Così nasce lo stato nazionale europeo, basato su lingua, religione e frontiera. Prima di quella data sulle carte geografiche le frontiere non esistevano. Fra uno stato e l’altro erano raffigurati animali esotici o mostri fantastici.
Gli stati europei sono così bravi a tracciare frontiere che i britannici e i francesi detengono il record mondiale, i primi con il 21% e i secondi con il 17% di tutte le frontiere della terra. Le abbiamo tutti presenti queste frontiere. Linee insensate tracciate nella sabbia dei deserti o nelle foreste tropicali. Alcune fomentatrici di guerre interminabili e di odi inestinguibili.
E intanto, proprio a due passi da qui, la frontiera che una volta era quella della cortina di ferro e che ci illudevamo potesse infine scomparire, oggi si richiude in un modo diverso. Non serve più a separare capitalismo da comunismo o slavi da latini, serve a trattenere certe persone lasciandone passare altre. Un po’ come quelle reti da pesca che lasciano passare i pesci piccoli e trattengono quelli grossi.
La frontiera oggi è una membrana fra un dentro e un fuori etnico. In più è diventata mobile, non è più attestata su una linea, visibile, identificabile ma subdola, diffusa in posti di blocco disseminati lungo le strade. Di fatto è un muro invisibile e per questo ancor più perfido. Le odierne frontiere europee sono il frutto di due guerre mondiali, sono state tracciate nel sangue, sono assolutamente arbitrarie e artificiali, eppure sono ancora sacrosante per ogni stato. Al punto che in qualsiasi negoziato prima o dopo una delle tante guerre che il mondo ha conosciuto dopo il 1945 di tutto si può discutere fuorché di frontiere.
Le definiamo “inviolabili”. Piuttosto che cambiarle diciamo che siamo addirittura disposti a cancellarle. Ovviamente perché si tratta di una finta. Nessuno vuole davvero cancellarle. E del resto per cancellarle davvero non basta toglierle dalle carte geografiche o smantellarne le barriere. Servirebbe una rivoluzione radicale della concezione stessa delle nostre società: lo sradicamento dello stato nazionale, il più astruso e mortifero artificio politico che la storia abbia mai conosciuto e la causa di tutte le tragedie degli ultimi due secoli. Un’operazione impossibile, perché ormai lo stato nazionale fa parte della nostra storia. Ma il semplice fatto di rendersi conto della sua artificiosità ci spianerebbe la via a un suo superamento, a capire che può esistere un diverso modo di identificarci.
Se fossimo disposti a capire innanzitutto che le lingue, quelle che innanzitutto ci dividono, non si fermano alle frontiere, che non appartengono a uno stato o a un’etnia ma alla gente che le parla, già avremmo fatto un passo da gigante. Imparare una lingua significa né più né meno venire a far parte della comunità che la parla e quindi allargare la nostra identità a un’altra cultura. Non c’è nulla che divide veramente un popolo dall’altro se non i limiti che noi stessi ci poniamo. Il tanto celebrato concetto delle radici e dell’identità è una finzione. Le radici stanno al buio, sottoterra. Quel che conta di una pianta sono i fiori, le foglie, i frutti: tutte cose caduche e passeggere. Ma vive.
Come l’identità, che non è uno stampo immutabile in cui nasciamo ma un processo continuo che finisce con noi. Il passo successivo per liberarsi dello stato nazionale sarebbe quello di riconoscersi patrioti non di un pezzo di terra, non di una mitologia da caricatura ma di principi e valori condivisi: libertà, stato di diritto, democrazia, pari opportunità. Allora, senza bisogno di tracciarle per terra, senza posti di blocco e fino spinato, le nostre frontiere si disegnerebbero da sole, sarebbero aperte a chiunque condivide questi nostri stessi valori e così non cesserebbero di allargarsi.